Varie su Bolano

Una stagione d’inferno

* * * * *

Una volta, se mi ricordo bene, la mia vita era un banchetto, in cui s’aprivano tutti i cuori, in cui tutti i vini scorrevano.

Una sera, ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. – E l’ho trovata amara. – E l’ho insultata.

Mi sono armato contro la giustizia.

Me ne sono scappato via. O streghe, miseria, odio, è a voi che è stato affidato il mio tesoro!

Riuscii a far svanire nel mio spirito tutta l’umana speranza. Per strangolarla, sopra ogni gioia ho spiccato il balzo sordo della bestia feroce.

Ho chiamato gli aguzzini per mordere, morendo, il calcio dei loro fucili. Ho chiamato i flagelli per soffocarmi con la sabbia, col sangue. La sventura è stata il mio dio. Mi sono disteso nel fango. Mi sono asciugato all’aria del delitto. E ho giocato brutti scherzi alla pazzia.

E la primavera mi ha portato l’orrenda risata dell’idiota.

Ora, proprio di recente, essendomi trovato sul punto di emettere l’ultimo rantolo, ho pensato di ricercare la chiave del banchetto antico, dove avrei forse ripreso appetito.

Questa chiave è la carità. – Ispirazione, questa, che comprova come io abbia sognato!

«Tu rimarrai iena, ecc…,» strepita il demonio che mi incoronò di così attraenti papaveri. «Raggiungi la morte con tutti i tuoi appetiti, e il tuo egoismo, e tutti i peccati capitali. »

Ah! ne ho avuto fin troppo: – Ma, Satana caro, una pupilla meno irritata, ti scongiuro! e in attesa di qualche piccola viltà ritardataria, stacco per te, che nello scrittore prediligi la mancanza delle facoltà descrittive o istruttive, queste poche disgustose paginette del mio taccuino di dannato.

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CATTIVO SANGUE

Ho dei miei antenati gallici l’occhio azzurro-bianco, il cervello stretto e la mancanza di agilità nella lotta. Trovo il mio modo di vestire barbaro quanto il loro. Ma io non mi ungo la capigliatura di burro.

I Galli erano gli scorticatori di bestie, gli incendiari di erbe più inetti del loro tempo.

Di loro, io ho: l’idolatria e l’amore del sacrilegio; – oh! tutti i vizi, collera, lussuria, – magnifica, la lussuria; – menzogna e pigrizia soprattutto.

Ho in orrore tutti i mestieri. Padroni e operai, tutti villani, ignobili. La mano da penna vale la mano da aratro. – Che secolo di mani! – La mia mano, io non l’avrò mai. E poi, la domesticità conduce troppo lontano. L’onestà della mendicità mi strazia. I criminali sono disgustosi come altrettanti castrati: io, per me, sono intatto, e la cosa mi è indifferente.

Ma! Chi ha reso la mia lingua perfida a tal punto, da guidare e salvaguardare finora la mia pigrizia? Senza servirmi per vivere neppure del corpo, e più ozioso del rospo, sono vissuto ovunque. Non vi è famiglia d’Europa che io non conosca – famiglie, intendo, come la mia, che devono tutto alla dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. – Li ho conosciuti tutti i figli di buona famiglia!

__________

Se avessi almeno degli antecedenti in un punto qualsiasi della storia di Francia!

Ma no, nulla!

Mi risulta evidentissimo che sono sempre stato razza inferiore. La rivolta, io non la posso capire. La mia razza mai insorse se non per saccheggiare: così fanno anche i lupi sulla la bestia che non hanno ucciso.

Ricordo la storia della Francia figlia primogenita della Chiesa. Avrei fatto, da viandante, il pellegrinaggio di terra santa; ho in mente certe strade nelle pianure sveve, le vedute di Bisanzio, i bastioni di Solima; tra mille fantasmagorie profane, si svegliano in me il culto di Maria, l’intenerimento per il crocifisso. – Da lebbroso, me ne sto seduto su cocci e ortiche ai piedi di un muro roso dal sole. – Più tardi, da armigero, avrei bivaccato sotto le notti di Germania.

Ah! c’è dell’altro: ballo il sabba in una rossa radura, con vecchie e bambini.

Nulla ricordo oltre questa terra e il cristianesimo. Non la finirei mai di rivedermi in questo passato. Sempre solo, però; senza famiglia; e che lingua parlavo, anzi? Non mi vedo mai nei consigli del Cristo; neppure nei consigli dei Signori, – rappresentanti del Cristo.

Nel secolo scorso, cos’ero: io mi ritrovo soltanto oggi. Non più vagabondi, non più guerre errabonde. La razza inferiore ha coperto tutto – il popolo, come si dice, la ragione; la nazione e la scienza.

Oh! la scienza! Tutto è stato ripreso. Per il corpo e per l’anima, – il viatico – abbiamo la medicina e la filosofia, – i rimedi delle donnette e le canzoni popolari adattate. E i divertimenti dei principi e i giochi che essi vietavano! Geografia, cosmografia, meccanica, chimica!…

Scienza, la nuova nobiltà! Il progresso. Il mondo procede! Perché non dovrebbe girare?

È questa la visione dei numeri. Andiamo verso lo Spirito. È assolutamente certo, è oracolo, quel che dico. Capisco, e non sapendomi spiegare senza parole pagane, vorrei restare in silenzio.

__________

Il sangue pagano ritorna! Lo Spirito è vicino: perché Cristo non mi aiuta dando nobiltà e libertà alla mia anima? Ahimè! Il Vangelo è passato! Il Vangelo! Il Vangelo.

Aspetto Dio golosamente. Sono di razza inferiore da tutta un’eternità, io.

Eccomi sulla spiaggia armoricana. Che si accendano, nella sera, le città. La mia giornata è compiuta; lascio l’Europa. L’aria marina mi brucerà i polmoni; i climi remoti mi abbruniranno. Nuotare, pestare l’erba, andare a caccia, fumare soprattutto; bere liquori forti come metallo bollente, – come facevano quei cari antenati intorno ai fuochi.

Tornerò, con muscoli di ferro, la pelle scura, l’occhio furibondo: dalla mia maschera, sarò giudicato di una razza forte. Avrò oro: sarò ozioso e brutale. Le donne curano questi feroci infermi di ritorno dai paesi caldi. Sarò coinvolto in faccende politiche. Salvo.

Adesso sono maledetto, ho in orrore la patria. La cosa migliore, è un profondo sonno ebbro, sulla spiaggia.

__________

Non si parte. – Riprendiamo i sentieri di qui, gravato dal mio vizio, il vizio che mi ha affondato le sue radici di sofferenza nel fianco, fin dall’età della ragione – che sale al cielo, mi batte, mi atterra, mi trascina.

L’ultima innocenza e l’ultima timidezza. È deciso. Non portare nel mondo i miei disgusti e i miei tradimenti.

Andiamo! La marcia, il fardello, il deserto, il tedio e la collera.

A chi darmi in affitto? Che bestia bisogna adorare? Che immagine sacra aggredire? Quali i cuori che spezzerò? E che menzogna devo sostenere? – Dentro che sangue marciare?

Guardarsi dalla pigrizia, piuttosto. – La vita dura, il semplice abbrutimento, – sollevare, col pugno rinsecchito, il coperchio della bara, sedersi, soffocarsi. Niente vecchiaia, così; né pericoli: il terrore non è francese.

– Ah! mi sento talmente abbandonato da offrire a qualsiasi immagine divina slanci verso la perfezione.

O mia abnegazione, o carità meravigliosa! quaggiù, tuttavia!

De profundis Domine, quanto sono sciocco!

__________

Ancora bambino, ammiravo l’intrattabile forzato, su cui sempre si richiude la galera; visitavo le locande e le camere ammobiliate che avrebbe consacrato con il suo soggiorno; vedevo con il suo pensiero il cielo azzurro e il travaglio fiorito della campagna; ne fiutavo la fatalità nelle città. Aveva più forza di un santo, più buonsenso di un viaggiatore – e lui, solo lui! come testimone della propria gloria e della propria ragione.

Lungo le strade, in notti d’inverno, senza rifugio, senza vestiti, senza pane, una voce mi stringeva il cuore gelato: « Debolezza o forza: eccoti, è la forza. Non sai né dove vai, né perché vai, entra ovunque, rispondi a tutto. Se tu fossi già cadavere di più non ti potrebbero uccidere. » Di mattina avevo lo sguardo così smarrito e un contegno così smorto che quelli che ho incontrato forse non mi hanno veduto.

Nelle città il fango mi appariva inaspettatamente rosso e nero, come uno specchio quando la lampada si sposta nella camera accanto, come un tesoro nella foresta! Buona fortuna, gridavo, e vedevo un mare di fiamme e di fumo in cielo; e a sinistra, a destra, tutte le ricchezze fiammeggiare come un miliardo di fulmini.

L’orgia e la compagnia delle donne mi erano però vietate. Neppure un compagno. Mi vedevo davanti a una folla esasperata, di fronte al plotone d’esecuzione, piangere per la sventura che essi non avessero potuto capire, e perdonare! – Come Giovanna d’Arco! – « Preti, professori, padroni, consegnandomi alla giustizia, voi cadete in errore. Non sono mai stato di questo popolo, io; non sono mai stato cristiano; io sono della razza che cantava nel supplizio; le leggi non le capisco; sono privo di senso morale, sono un bruto: voi cadete in errore… »

Sì, ho gli occhi chiusi alla vostra luce. Io sono una bestia, un negro. Ma posso essere salvato. Siete falsi negri, voi, voi maniaci, feroci, avari. Mercante, tu sei negro; magistrato, tu sei negro; generale, tu sei negro; imperatore, prurigine antica, tu sei negro: hai bevuto un liquore di contrabbando, della fabbrica di Satana. – Questo popolo è ispirato dalla febbre e dal cancro. Infermi e vecchi sono talmente rispettabili da chiedere di essere messi a bollire. – Nulla di più astuto dell’abbandonare questo continente, dove la pazzia si aggira per provvedere di ostaggi questi miserabili. Entro nel vero regno dei figli di Cam.

Conosco ancora la natura? Conosco me stesso? – Basta con le parole. Mi seppellisco i morti nel ventre. Grida, tamburo, danza, danza, danza, danza! Non vedo neppure l’ora in cui, allo sbarcare dei bianchi, sarò annientato.

Fame, sete, grida, danza, danza, danza, danza!

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I bianchi sbarcano. Il cannone! Bisogna sottomettersi al battesimo, vestirsi, lavorare.

Nel cuore ho ricevuto il colpo della grazia. Ah! non l’avevo previsto!

Male non ne ho commesso. I giorni mi saranno leggeri, il pentimento mi sarà risparmiato. Non avrò provato i tormenti dell’anima pressoché morta al bene, in cui risale la luce severa come i ceri funerari. La sorte del figlio di buona famiglia, bara prematura coperta di limpide lacrime. Indubbiamente la dissolutezza è stupida, il vizio è stupido; si deve gettare la putredine da parte. Ma l’orologio non sarà giunto a non suonar altro che l’ora del puro dolore! Sarò fra breve rapito come un bambino, per giocare in paradiso nell’oblio di ogni sventura!

Presto! vi sono altre vite? – nella ricchezza il sonno è impossibile. La ricchezza è sempre stata bene pubblico. Soltanto l’amore divino concede le chiavi della scienza. Vedo che la natura non è che uno spettacolo di bontà. Addio chimere, ideali, errori.

Il canto assennato degli angeli si innalza dal vascello salvifico: è l’amore divino. – Due amori! posso morire dell’amore terreno, io, morire di dedizione. Ho abbandonato anime la cui pena si accrescerà dopo il mio distacco! Voi mi scegliete tra i naufraghi; non sono miei amici quelli che rimangono?

Salvateli!

Mi è nata la ragione. Il mondo è buono. Benedirò la vita. Amerò i miei fratelli. Non sono più promesse d’infanzia. Né la speranza di sfuggire alla vecchiaia e alla morte. Dio costituisce la mia forza, ed io lodo Dio.

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Il tedio non è più il mio amore. Le rabbie, le dissolutezze, la pazzia, di cui conosco tutti gli slanci e i disastri, – tutto il mio fardello è deposto. Apprezziamo senza vertigine l’estensione della mia innocenza.

Non sarei più capace di chiedere il conforto di una bastonata. Non mi ritengo imbarcato per andare a nozze, con Gesù Cristo per suocero.

Non sono prigioniero della mia ragione. Ho detto: Dio. Voglio la libertà nella salvezza: come conseguirla? I gusti frivoli mi hanno lasciato. Nessun bisogno più di dedizione né di amore divino. Non rimpiango il secolo dei cuori sensibili. Ciascuno ha la propria ragione, disprezzo e carità: mi prenoto il posto in cima a questa angelica scala di buon senso.

Quanto alla felicità garantita, domestica o no…no, io non posso. Sono troppo dissipato, troppo debole. La vita fiorisce con il lavoro, verità antica: quanto a me, la mia vita non è abbastanza pesante, vola via e fluttua lontano al di sopra dell’azione, questo caro punto del mondo.

Quanto divento simile ad una zitella, a mancare di coraggio nell’amare la morte!

Se Dio mi concedesse la calma celeste, aerea, la preghiera, – come i santi antichi. – I santi! dei forti! gli anacoreti, artisti come non ne occorrono più!

Perpetua farsa! La mia innocenza mi farebbe piangere. La vita è la farsa che tutti hanno da recitare.

__________

Basta così! ecco la punizione. – In marcia!

Ah! i polmoni bruciano, le tempie pulsano! la notte mi turbina negli occhi, con questo sole! il cuore… le membra…

Dove si va? in battaglia? Sono debole, io! gli altri avanzano. Gli arnesi, le armi… il tempo!…

Fuoco! Fuoco su di me! Così! o mi arrendo. – Vigliacchi! – Mi ammazzo! Mi getto tra i piedi dei cavalli!

Ah!..

– Ci farò l’abitudine.

Sarebbe la vita francese, il sentiero dell’onore!

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NOTTE DELL’INFERNO

Ho trangugiato un’inaudita sorsata di veleno. – Sia tre volte benedetto il consiglio che mi è pervenuto! – Mi bruciano le viscere. La violenza del veleno mi contorce le membra, mi rende deforme, mi schianta. Muoio di sete, soffoco, non posso gridare. L’inferno, la pena eterna è questa! Guardate come si ravviva il fuoco! Brucio come si deve. Va’, demonio!

Avevo intravisto la conversione al bene e alla felicità, la salvezza. Come posso descriverne la visione, l’aria dell’inferno non sopporta gli inni! Erano milioni di creature incantevoli, un soave concerto spirituale, la forza e la pace, le nobili ambizioni, che ne so io?

Le nobili ambizioni!

E ancora è la vita! – Se la dannazione è eterna! Un uomo che si voglia mutilare è dannato per davvero, no? Io mi credo all’inferno, quindi ci sono. È il catechismo in atto. Sono schiavo del mio battesimo, io. Voi, genitori, avete originato la mia infelicità, e avete originato la vostra. Povero innocente! – L’inferno non può tormentare i pagani. – È la vita ancora! Più avanti, le delizie della dannazione saranno più profonde. Un delitto, presto, che io sia annientato in nome della legge umana.

Taci, su, taci!…Qui è la vergogna, il rimprovero: Satana che dice che il fuoco è ignobile, che è spaventosamente sciocca la mia collera. – Basta!… Con gli errori che mi vengono suggeriti, magie, falsi profumi, musiche puerili. – E dire che possiedo la verità, che vedo la giustizia: il mio giudizio è sano e deciso, sono pronto per la perfezione… Orgoglio. – La pelle del cranio mi si rinsecchisce. Pietà! Signore, ho paura. Ho sete, tanta sete! Ah! l’infanzia, l’erba, la pioggia, il lago sulle pietre, il chiaro di luna quando dal campanile rintoccavano le dodici… c’è il diavolo, a quell’ora, sul campanile. Maria! Vergine Santa!… – Orrore della mia stupidità.

Non ci sono anime oneste, laggiù, che mi vogliono bene?… Venite… Ho un guanciale sulla bocca, non mi sentono, sono fantasmi. E poi, nessuno pensa mai agli altri. Che nessuno si avvicini. Io puzzo di bruciaticcio, di sicuro.

Innumerevoli sono le allucinazioni. E’ proprio quel che ho sempre avuto: niente più fede nella storia, l’oblio dei princìpi. Me ne starò zitto: poeti e visionari sarebbero gelosi. Sono mille volte il più ricco di tutti; voglio essere avaro come il mare.

Toh! Proprio adesso l’orologio della vita si è fermato. Non sono più al mondo. – La teologia è seria, l’inferno è certamente in basso – e il cielo in alto. – Estasi, incubo, sonno dentro un nido di fiamme.

Quante malizie nell’osservazione della campagna… Satana, Ferdinand, corre con le sementi selvatiche… Gesù cammina sui rovi porporini, senza curvarli… Gesù camminava sulle acque irritate. La lanterna ce lo mostrò ritto in piedi, bianco e bruno di chiome, sul fianco di un’onda di smeraldo…

Sto per svelare tutti i misteri: misteri religiosi o naturali, morte, nascita, avvenire, passato, cosmogonia, nulla. Sono maestro in fantasmagorie, io.

Ascoltate!…

Io possiedo tutti i talenti! – Non c’è nessuno, qui, e c’è qualcuno: non vorrei sparpagliare il mio tesoro. – Volete canti negri, danze di urì? Volete che scompaia, che mi tuffi alla ricerca dell’anello? Lo volete? Fabbricherò dell’oro, dei farmaci.

Fidatevi di me, quindi, la fede conforta, guida, guarisce. Venite tutti, – anche i bambini, – che io vi consoli, che sia sparso per voi il suo cuore, – il cuore meraviglioso! – Poveri uomini, lavoratori! Io non chiedo preghiere; mi basterà la vostra fiducia per essere felice.

– E pensiamo a me. Ben poco questo mi fa rimpiangere il mondo. Ho la fortuna di non soffrire più. La mia vita non fu che dolci follie, e me ne dispiace.

Bah! Facciamo tutte le smorfie immaginabili.

Decisamente, siamo fuori dal mondo. Nessun suono più. Il mio tatto è scomparso. Ah! il mio castello, la mia Sassonia, il mio bosco di salici. Le sere, le mattine, le notti, i giorni… Sono stanco!

Dovrei avere il mio inferno per la collera, il mio inferno per l’orgoglio, – e l’inferno della carezza; un concerto di inferni.

Muoio di stanchezza. È la tomba, vado a sfamare i vermi, orrore dell’orrore! Tu mi vuoi dissolvere, Satana, buffone, con i tuoi incantesimi. Io reclamo! Reclamo un colpo di forcone, una goccia di fuoco.

Ah! Risalire alla vita! Posare gli occhi sulle nostre deformità. E questo veleno, questo bacio mille volte maledetto! La mia debolezza, la crudeltà del mondo! Pietà, mio Dio, nascondimi; mi comporto troppo male, io! – Sono nascosto e non lo sono.

È il fuoco che si ravviva con il suo dannato.

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DELIRI

I

VERGINE FOLLE

LO SPOSO INFERNALE

Ascoltiamo la confessione di un compagno d’inferno:

« O divino Sposo, mio Signore, non rifiutare la confessione della più triste tra le tue serve. Io sono perduta. Sono ubriaca. Sono impura. Che vita!

« Perdono, divino Signore, perdono! Ah! perdono! Quante lacrime! E quante lacrime ancora, più tardi, spero!

« Più tardi, conoscerò il divino Sposo! Sono nata a Lui sottomessa. – L’altro mi può battere, adesso!

« Sono in fondo al mondo, io, oramai! O amiche mie!… no, non amiche mie… Né deliri né torture simili, mai… Che stupidaggine!

« Ah! soffro, grido. Io soffro davvero. Tuttavia tutto mi è concesso, oppressa dal disprezzo dei più spregevoli cuori.

« Facciamo questa confidenza, una buona volta, salvo a ripeterla venti volte ancora, – per tetra, per insignificante che sia!

« Sono schiava dello Sposo infernale, di colui che ha perduto le vergini folli. Si tratta proprio di quel demonio. Non è uno spettro, non è un fantasma. Io, però, che ho smarrito la saggezza, che sono dannata e morta al mondo, – io non sarò uccisa! Come descrivervelo! Non so neppure più parlare. Sono in lutto, piango, ho paura. Un po’ di refrigerio, Signore, se non ti spiace, se proprio non ti spiace!

« Sono vedova… – Ero vedova… – ma sì, sono stata molto seria, una volta, e non sono nata per diventare scheletro!… – Lui, era quasi un bambino… Mi avevano sedotto le sue misteriose delicatezze. Ho dimenticato per seguirlo ogni mio umano dovere. Che vita! La vera vita è assente. Noi non siamo al mondo. Io vado dove va lui, è necessario. E spesso si infuria contro di me, me, povera anima. Demonio! – È un Demonio, sapete, non è un uomo.

« Dice: « Non mi piacciono le donne. L’amore, si sa, è da reinventare. Loro di più non possono volere che una posizione sicura. Raggiunta la posizione, cuore e bellezza sono messi da una parte: non resta che freddo sdegno, l’alimento, oggi, del matrimonio. Oppure vedo donne con i segni della felicità, di cui io avrei potuto fare buone compagne, divorate subito da bruti sensibili come roghi…».

« L’ascolto mentre fa dell’infamia una gloria, della crudeltà un incanto. « Sono di razza lontana: i miei padri erano Scandinavi: si trafiggevano il costato, bevevano il loro stesso sangue. – Mi farò incisioni su tutto il corpo, mi tatuerò, voglio diventare ripugnante come un Mongolo: urlerò per le strade, vedrai. Voglio diventare pazzo furioso di rabbia. Non mi mostrare mai gioielli, striscerei e mi contorcerei sul tappeto. La mia ricchezza, io la vorrei macchiata di sangue dappertutto. Non lavorerò mai, io… » Molte notti, quando il suo demonio si impadroniva di me, ci rotolavamo, lottavo con lui! – Spesso, di notte, ubriaco, egli si apposta in certe strade o case, per spaventarmi mortalmente. – « Mi taglieranno davvero il collo; sarà disgustoso. » Oh! quei giorni in cui vuole andarsene a spasso con l’aria del delitto!

« Parla, talvolta, con una specie di tenero gergo, della morte che fa pentire, dei disgraziati che di sicuro esistono, dei lavori gravosi, delle partenze che straziano i cuori. Nelle bettole dove ci ubriacavamo, piangeva osservando quelli che ci stavano attorno, misero bestiame. Rialzava da terra gli ubriachi nelle strade buie. Aveva la pietà di una madre cattiva per i figli piccoli. – Se ne andava in giro con le grazie di una fanciulla al catechismo. – Fingeva di essere edotto in tutto, commercio, arte, medicina. – Io lo seguivo, è necessario!

« Vedevo tutto lo scenario di cui, in spirito, si circondava; abiti, stoffe, mobili: gli attribuivo delle armi, un altro aspetto. Vedevo tutto quanto lo riguardava come avrebbe voluto crearlo per se stesso. Quando mi sembrava che avesse lo spirito inerte, lo seguivo, io, in azioni strane e complicate, lontano, buone o cattive: ero certa di non entrare mai nel suo mondo. Accanto al suo caro corpo addormentato, quante ore di notte ho vegliato, cercando il perché volesse tanto evadere dalla realtà. Mai nessun uomo ebbe simile bramosia. Riconoscevo, – senza temere per lui – che nella società poteva essere un serio pericolo. – Che abbia qualche segreto per cambiare la vita? No, non fa che cercarne, mi rispondevo. Insomma la sua carità è stregata, e io ne sono prigioniera. Nessun’altra anima avrebbe abbastanza forza, – forza di disperazione! – per sopportarla, – per essere protetta e amata da lui. D’altronde, non mi riusciva di immaginarlo con un’altra anima: il proprio Angelo lo si vede, l’Angelo di un altro mai, – credo. Io mi trovavo nell’anima sua come in un palazzo che sia stato svuotato per non vedere una persona così poco nobile quanto te: ecco tutto. Fino a che punto, ahimè, dipendevo da lui! Ma cosa voleva farne della mia esistenza oscura e abietta? Se non mi faceva morire, non mi rendeva certo migliore! Talvolta, tristemente indispettita, gli dissi: « Io ti capisco. » Lui alzava le spalle.

« Così, rinnovandosi la mia afflizione incessantemente e ritrovandomi sempre più smarrita ai miei stessi occhi, – come a tutti gli occhi che avessero voluto fissarmi, se non fossi stata condannata per sempre all’oblio di tutti! – avevo sempre più fame della sua bontà. Con i suoi baci e i suoi abbracci amichevoli, quello in cui entravo era davvero un cielo, un cupo cielo, in cui avrei voluto essere lasciata, povera, sorda, muta, cieca. Già ne prendevo l’abitudine. Vedevo lui e me come due buoni fanciulli, liberi di passeggiare nel Paradiso di tristezza. Andavamo d’accordo. Lavoravamo assieme, profondamente commossi. Ma, dopo una penetrante carezza, egli diceva: « Come ti parrà strana, quando io non ci sarò più, la tua vita trascorsa! Quando non avrai più le mie braccia sotto il collo, né il mio cuore per riposarvi, né questa bocca sui tuoi occhi. Perché bisognerà che io me ne vada, lontanissimo, un giorno. Poi bisogna che io ne aiuti altre: è mio dovere. Benché non sia un granché allettante…, anima cara…». Mi presentivo all’istante, partito lui, in preda alla vertigine, precipitata nell’ombra più spaventosa: la morte. Gli facevo promettere che non mi avrebbe abbandonata. L’ha fatta venti volte, questa promessa d’amante. Non era meno frivolo di me quando gli dicevo: « Io ti capisco. »

« Ah! Non sono mai stata gelosa di lui, io! Non mi abbandonerà, credo. Che ne sarebbe di lui? Non ha una sola conoscenza; lavorare non lavorerà mai. Vuole vivere da sonnambulo. Che diritto gli darebbero, nel mondo reale, da sole, la sua bontà e la sua carità? A tratti, dimentico la pietà in cui sono caduta: lui mi renderà forte, viaggeremo, andremo a caccia nei deserti, dormiremo sui selciati delle città sconosciute, senza preoccupazioni, senza pene. Oppure, mi risveglierò, e le leggi e le usanze saranno mutate – grazie al suo potere magico, – il mondo, pur rimanendo lo stesso, mi lascerà ai miei desideri, alle mie gioie, alle mie indolenze. Oh! Me la darai tu, per ricompensarmi, ho tanto sofferto, la vita di avventure che esiste nei libri per bambini? Non può. Il suo ideale io lo ignoro. Mi ha confidato di avere dei rimpianti, delle speranze: questo non mi deve riguardare. Parla forse a Dio? Forse mi dovrei rivolgere a Dio. Sono nel più profondo dell’abisso, e non so più pregare.

« Se mi spiegasse le sue tristezze, le capirei meglio delle sue beffe? Mi dà addosso. Passa ore a svergognarmi per tutto quanto mi ha potuto commuovere al mondo, e si indigna se piango.

« – Vedi quel giovanotto elegante che entra in quella casa bella e tranquilla: si chiama Duval, Dufour, Armand, Maurice, che so io? Una donna si è consacrata ad amare quell’infame idiota: è morta, è di certo una santa in cielo, adesso. Tu mi farai morire come quello ha fatto morire quella donna. Questo è il nostro destino, di noi, cuori caritatevoli…» Ahimè! C’erano giorni in cui tutti gli uomini che facevano qualcosa gli sembravano zimbelli di deliri grotteschi: rideva orribilmente, a lungo. – Poi, riprendeva le sue maniere da giovane madre, da sorella diletta. Se fosse meno selvatico, saremmo salvi! Ma anche la sua dolcezza è mortale. Io gli sono sottomessa. – Ah! sono pazza!

« Un giorno forse prodigiosamente scomparirà; ma bisogna che io sappia, se deve risalire a un cielo, che io veda un poco l’assunzione del mio amoruccio!”.

Che coppia grottesca!

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DELIRI

II

ALCHIMIA DEL VERBO

A me. La storia di una delle mie follie.

Da molto tempo mi vantavo di possedere tutti i paesaggi possibili, e trovavo derisorie le celebrità della pittura e della poesia moderna.

Mi piacevano i dipinti idioti, soprapporte, scenari, tele di saltimbanchi, insegne, vignette popolari; la letteratura fuori moda, latino di chiesa, libri erotici senza ortografia, romanzi delle nostre nonne, racconti di fate, libricini per l’infanzia, vecchi melodrammi, ritornelli sciocchi, ritmi ingenui.

Sognavo crociate, viaggi di scoperte di cui non è rimasta relazione, repubbliche senza storia, guerre di religione soffocate, rivoluzioni di costumi, spostamenti di razze e di continenti: credevo a tutti gli incantesimi.

Inventai il colore delle vocali! – A nera, E bianca, I rossa, O blu, U verde. – Regolai la forma e il movimento di ogni consonante, e, con ritmi istintivi, mi lusingai d’inventare un verbo poetico accessibile, un giorno o l’altro, a tutti i sensi. Me ne riservavo la traduzione.

Fu dapprima uno studio. Scrivevo silenzi, notti, annotavo l’inesprimibile. Fissavo vertigini.

__________

Lontano dagli uccelli, dalle greggi, dalle villanelle,
Cosa bevevo, in ginocchio in quella brughiera
Circondata da teneri boschi di noccioli,
In una nebbia di pomeriggio tiepido e verde?

Cosa mai potevo bere in quella giovane Oise,
– Olmi senza voce, prato senza fiori, cielo coperto! –
Bere a quelle gialle zucche, lontano dalla mia capanna Prediletta?
Qualche aureo liquore che fa sudare.

Rassomigliavo a una losca insegna di locanda.–
Un temporale giunse a scacciare il cielo. A sera
L’acqua dei boschi si perdeva sulle sabbie vergini,
Il vento di Dio gettava ghiaccioli negli stagni;

Piangendo, vedevo oro, – e bere non potei. –

__________

Alle quattro del mattino, d’estate,
Il sonno d’amore ancora dura.
Sotto i boschetti svapora
L’odore della sera di festa.

Laggiù, nel loro vasto cantiere,
Al sole delle Esperidi,
S’agitano già – in maniche di camicia –
I Carpentieri.

Nei loro Deserti di muschio, tranquilli,
preparano i pannelli preziosi,
Su cui la città
Dipingerà falsi cieli.

Oh, per quegli Operai fascinosi,
Sudditi di un re di Babilonia,
Venere! lascia un istante gli Amanti,
Che l’anima hanno incoronata!

O Regina dei Pastori,
Porta ai lavoratori l’acquavite,
Che le loro forze siano in pace
aspettando il bagno in mare a mezzogiorno.

__________

Il vecchiume poetico aveva una buona parte nella mia alchimia del verbo.

Mi abituai all’allucinazione semplice: vedevo molto nettamente una moschea al posto di un’officina, una scuola di tamburi tenuta dagli angeli, calessi sulle strade del cielo, una gran sala in fondo a un lago; i mostri, i misteri; un titolo d’operetta rizzava innanzi a me veri terrori.

Spiegai poi i miei magici sofismi con l’allucinazione delle parole!

Finii col trovare sacro il disordine del mio spirito. Ero ozioso, in preda a una greve febbre: invidiavo la felicità delle bestie, – i bruchi, che rappresentano l’innocenza dei limbi, le talpe, il sonno della verginità!

Il carattere mi si inaspriva. Dicevo addio al mondo in specie di romanze:

CANZONE DELLA TORRE MAGGIORE.

Che venga, che venga,
Il tempo di cui ci si innamori.

Tanto, io, ho pazientato,
Da dimenticare per sempre tutto.
Timori e sofferenze
Nei cieli se ne sono andati.
E la sete malsana
Mi ottenebra le vene.

Che venga, che venga,
Il tempo di cui ci si innamori!

Come la prateria,
All’oblio abbandonata,
Ingrandita, e fiorita
D’incensi e di logli,
Al ronzio feroce
Delle luride mosche.

Che venga, che venga,
Il tempo di cui ci si innamora!

Amai il deserto, i frutteti riarsi, le botteghe trasandate, le bevande intiepidite. Mi trascinavo nei vicoli maleodoranti,e, con gli occhi chiusi, mi offrivo al sole, dio di fuoco.

« Generale, se resta un vecchio cannone sui tuoi spalti in rovina, bombardaci con zolle di terra secca. Contro le vetrate delle botteghe sfolgoranti! Nei salotti! Fai mangiare alla città la sua polvere. Ossida i doccioni. Colma di rovente polvere di rubini i salottini riservati…».

Oh! Il moscerino ubriacato al pisciatoio della locanda, innamorato della borrana, e che un raggio dissolve!

FAME.

Se di qualcosa ho voglia
È solo di terra e di pietre.
Mi nutro sempre d’aria,
Di roccia, di carboni, di ferro.

Mie fami, volgetevi. Pascete, fami,
Il prato dei suoni.
Succhiate il gaio veleno
Dei convolvoli.

Mangiate i sassi in frantumi,
i vecchi lastroni di chiese;
I ciottoli degli antichi diluvi,
Pani sparsi nelle grigie vallate.

__________

Il lupo urlava sotto le foglie,
Sputando le belle piume
Del suo pasto di pollame:
Come lui io mi consumo.

Le insalate, i frutti
Non aspettano che d’essere colti;
Ma il ragno della siepe
Non mangia che violette.

Che io dorma! Che io bolla
Sugli altari di Salomone.
Il brodo corre sulla ruggine
E si mescola al Cedron.

Finalmente, o felicità, o ragione, scostai dal cielo l’azzurro, che altro non è che nero, e vissi, scintilla d’oro della luce natura. Per la gioia, assumevo un’espressione quanto più comica e smarrita possibile:

È ritrovata!
Cosa? L’eternità.
È il mare mischiato
Col sole.

Anima mia eterna,
Mantieni il tuo voto
Malgrado la notte sola
E il giorno infuocato.

Tu ti liberi, dunque
Dagli umani suffragi
Dagli slanci comuni!
Tu voli secondo…

– La speranza mai,
Nessun orietur.
Scienza e pazienza,
Il supplizio è sicuro.

Non più domani,
Braci di raso,
Vostro ardore
È il dovere.

È ritrovata!
– Cosa? – L’eternità.
È il mare mischiato
Col sole.

__________

Diventai un favoloso melodramma: vidi che tutti gli esseri soggiacciono a un fato di felicità: l’azione non è la vita, ma un modo di sprecare una qualche forza, uno snervamento. La morale è la debolezza del cervello.

Ad ogni essere, parecchie altre vite mi sembrano dovute. Quel signore non sa quel che fa: è un angelo. Quella famiglia è una nidiata di cani. Davanti a parecchi uomini, parlai ad alta voce con un istante di una delle altre loro esistenze. – Così, ho amato un porco.

Nessun sofisma della follia, – la follia che si mette sotto chiave, – è stato da me dimenticato: potrei ridirli tutti quanti, ne possiedo il sistema.

La mia salute fu minacciata. Arrivava il terrore. Cadevo in sonni di parecchi giorni, e, alzato, continuavo i sogni più tristi. Ero maturo per il trapasso, e per una via piena di pericoli la debolezza mi conduceva ai confini del mondo e della Cimmeria, patria dell’ombra e dei turbini.

Dovetti viaggiare, distrarre gli incantesimi che mi si erano accumulati sul cervello. Sul mare, che amavo come se mi avesse dovuto lavare da una contaminazione, vedevo innalzarsi la croce consolatrice. Ero stato dannato dall’arcobaleno. La Felicità era la mia fatalità, il mio rimorso, il mio verme: la mia vita sarebbe sempre stata troppo vasta per essere votata alla forza e alla bellezza.

La Felicità! Il suo dente, dolce da morirne, mi avvertiva al canto del gallo, – ad matutinum, al Christus venit, – nelle più oscure città.

O stagioni, o castelli!
Quale anima è senza difetti?

Ho fatto il magico studio
Della felicità, che nessuno elude.

Salve, ad essa, ogni volta
Che il gallico gallo canta.

Ah! Non avrò più voglie:
Si curerà, lei, della mia vita.

Questo incanto ha preso anima e corpo
E disperso gli sforzi.

O stagioni, o castelli!

L’ora della sua fuga, ahimè!
L’ora sarà del trapasso.

O stagioni, o castelli!

___________

Tutto ciò è accaduto. Oggi io so salutare la bellezza.

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L’IMPOSSIBILE

Ah! quella vita della mia infanzia, lo stradone con qualsiasi tempo, sobrio in modo soprannaturale, più disinteressato del miglior mendicante, fiero di non avere né patria né amici, quale mai sciocchezza era. – E me ne accorgo solo adesso!

– Ho avuto ragione di disprezzare quei galantuomini che non perderebbero l’occasione di una carezza, parassiti della pulizia e della salute delle nostre donne, oggi che esse vanno con noi così poco d’accordo.

Ho avuto ragione in tutti i miei sdegni: giacché io evado!

Io evado!

Mi spiego.

Ieri ancora, sospiravo: « Cielo! Quanti dannati mai siamo quaggiù! Io, da tanto oramai sono nel loro branco! Li conosco tutti. Ci riconosciamo sempre, noi; ci facciamo schifo. La carità ci è sconosciuta. Siamo cortesi, però; le nostre relazioni con la gente sono corrette, molto. » C’è forse da stupirsene? La gente! I mercanti, gli ingenui! – Noi non siamo disonorati. – Ma gli eletti, come ci accoglierebbero? Ora, c’è gente stizzosa e allegra, falsi eletti, giacché per avvicinarli ci vuole audacia o umiltà. Sono gli unici eletti. E non è gente che benedice!

Avendo ritrovato in me due soldi di ragione – cosa che passa presto! – vedo che le mie inquietudini derivano dal non essermi figurato per tempo che siamo in Occidente. Le paludi occidentali! Non che io ritenga alterata la luce, estenuata la forma, smarrito il movimento… Bene! ecco che il mio spirito vuole assolutamente accollarsi tutti i crudeli sviluppi che ha subito lo spirito dalla fine dell’Oriente… Esigente, il mio spirito!

… I miei due soldi di ragione sono finiti! – Lo spirito è autorità; vuole che io sia in Occidente. Bisognerebbe farlo tacere per concludere come volevo.

Mandavo al diavolo le palme dei martiri, gli splendori dell’arte, l’orgoglio degli inventori, l’ardore dei saccheggiatori; ritornavo all’Oriente e alla saggezza prima ed eterna. – A quanto pare si tratta di un sogno di grossolana pigrizia!

Eppure, non pensavo affatto al piacere di sfuggire alle sofferenze moderne. Non miravo alla saggezza bastarda del Corano. – Ma non c’è forse un effettivo supplizio nel fatto che, da quella dichiarazione della scienza in poi, il cristianesimo, l’uomo turlupini se stesso, si dimostri le evidenze, si gonfi del piacere di ripetere queste dimostrazioni, e non viva altro che in questo modo! Ingenua, sottile tortura; origine delle mie divagazioni spirituali. La natura potrebbe annoiarsi, forse! Monsieur Prudhomme è nato con Cristo.

Non è forse perché coltiviamo la bruma! Mangiamo la febbre con i nostri acquosi legumi. E l’ubriachezza! e il tabacco! e l’ignoranza! e le abnegazioni? – Non sono esse tutte cose abbastanza lontane dal pensiero della saggezza d’Oriente, la patria primitiva? Perché un mondo moderno, se si inventano simili veleni!

La gente di Chiesa dirà: D’accordo. Ma voi intendete parlare dell’Eden. Nulla, per voi, nella storia dei popoli orientali. – È vero; è proprio all’Eden che pensavo! Che cos’è mai per il mio sogno, questa purezza delle razze antiche!

I filosofi: Il mondo non ha età. L’umanità non fa che spostarsi, semplicemente. Sei in Occidente, tu, ma libero di abitare nel tuo Oriente, antico quanto ti occorra, – e di starci bene. Non essere un vinto. Voi, filosofi, siete del vostro Occidente.

Bada, spirito mio. Nessun violento espediente di salvezza. Esercitati! – Ah! la scienza non procede abbastanza in fretta per noi!

– Ma mi accorgo che il mio spirito dorme.

Se fosse ben sveglio, sempre, a partire da questo momento, raggiungeremmo in breve la verità, che forse ci circonda piangente con i suoi angeli!… – Se fosse stato sveglio fino a questo momento, allora non avrei ceduto agli istinti deleteri, in un’epoca immemorabile!… – Se fosse sempre stato ben sveglio, navigherei in piena saggezza!…

O purezza! purezza!

È quest’attimo di risveglio che mi ha dato la visione della purezza! Attraverso lo spirito si giunge a Dio!

Straziante sventura!

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IL LAMPO

Il lavoro umano! è l’esplosione che illumina il mio abisso di tanto in tanto.

« Nulla è vanità: alla scienza, e avanti! » grida l’Ecclesiaste moderno, che è come dire Tutti quanti. Eppure i cadaveri dei malvagi e dei fannulloni ricadono sul cuore degli altri… Ah! presto, presto, via; laggiù, oltre la notte, a quelle ricompense future, eterne… possiamo noi sfuggire?…

– Che posso farci? Conosco il lavoro; e la scienza è troppo lenta. Come galoppa la preghiera e come tuona la luce… lo vedo bene. E’ troppo semplice, e fa troppo caldo; faranno a meno di me. Io ho il mio dovere; ne sarò orgoglioso come tanti altri, mettendolo in disparte.

La mia vita è frustra. Via! fingiamo, oziamo, che pietà! Ed esisteremo divertendoci, sognando amori mostruosi e universi fantastici, lamentandoci e prendendocela con le apparenze del mondo, saltimbanco, mendicante, artista, bandito, – prete! Sul mio letto d’ospedale, l’odore dell’incenso è ricomparso così penetrante: custode dei sacri aromi, confessore, martire…

Riconosco in questo la sporca educazione della mia infanzia. E poi cosa!… Vivere i miei vent’anni, se gli altri vanno avanti vent’anni…

No! no! adesso io mi ribello contro la morte! Il lavoro sembra troppo leggero al mio orgoglio: il mio tradimento al mondo sarebbe un supplizio troppo breve. All’ultimo momento, attaccherei a destra, a sinistra…

Allora, – oh! – cara povera anima, l’eternità sarebbe non perduta per noi!

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MATTINO

Non ho avuto forse anch’io una volta una giovinezza piacevole, eroica, favolosa, da scrivere su fogli d’oro, – troppa grazia! Per quale delitto, per quale errore, ho meritato la mia debolezza attuale? Voi che pretendete che le bestie emettano singhiozzi di dolore, che gli ammalati disperino, che i morti facciano brutti sogni, cercate di raccontare la mia caduta ed il mio sonno. Quanto a me, io non posso spiegarmi meglio del mendicante coi suoi continui Pater e Ave Maria. Io non so più parlare!

Oggi, ad ogni modo, credo di aver finito la relazione del mio inferno. Era proprio l’inferno; l’antico, quello di cui il figlio dell’uomo aprì le porte.

Dallo stesso deserto, nella stessa notte, sempre i miei occhi stanchi si risvegliano alla stella d’argento, sempre, senza che i Re della vita, i tre magi, il cuore, l’animo, la mente, si commuovano. Quando andremo noi, di là dalle spiagge e dai monti, a salutare la nascita del lavoro nuovo, la nuova saggezza, la fuga dei tiranni e dei demoni, la fine della superstizione, ad adorare – per primi! – Natale sulla terra!

Il canto dei cieli, la marcia dei popoli! Schiavi, non malediciamo la vita!

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ADDIO

Di già l’autunno! – Ma perché rimpiangere un eterno sole, se siamo impegnati nella scoperta della luce divina, – lontano dalla gente che muore sulle stagioni?

L’autunno. La nostra barca alta nelle brume immobili punta verso il porto della miseria, la città enorme dal cielo macchiato di fuoco e di fango. Ah! Gli stracci marciti, il pane inzuppato di pioggia, l’ebbrezza, i mille amori che mi hanno crocifisso! Non finirà dunque mai questa la mia regina di milioni di anime e di corpi morti e che saranno giudicati! Mi rivedo con la pelle corrosa dal fango e dalla peste, pieni i capelli e le ascelle di vermi, e con vermi anche più grossi dentro il cuore, sdraiato fra gli sconosciuti senza età, senza sentimento… Avrei potuto morirci… Orrenda evocazione! Io aborro la miseria.

E temo l’inverno perché è la stagione delle comodità!

– Talvolta scorgo in cielo spiagge senza fine coperte di bianche moltitudini in festa. Un grande vascello d’oro, ad di sopra di me, agita i suoi vessilli multicolori alle brezze del mattino. Io ho creato tutte le feste, tutti i trionfi, tutti i drammi. Ho cercato d’inventare nuovi fiori, nuovi astri, nuove carni, nuove lingue. Ho creduto di acquisire poteri soprannaturali. Ebbene! devo seppellire la mia immaginazione e i miei ricordi! Una bella gloria d’artista e di narratore che se ne va!

Io! io che mi sono detto mago o angelo, dispensato da ogni morale, io sono restituito alla terra, con un dovere da cercare, e la realtà rugosa da stringere tra le braccia! Bifolco!

Sono stato tratto in inganno? sarebbe forse sorella della morte, per me, la carità?

Alla fine, chiederò perdono d’essermi nutrito di menzogne. E andiamo.

Ma nemmeno una mano amica! E dove cercare aiuto?

__________

Sì, l’ora nuova è perlomeno molto severa.

Giacché posso dire che la vittoria mi è propria: gli stridori di denti, i sibili di fuoco, i sospiri appestati si calmano. Tutti i ricordi immondi si cancellano. I miei ultimi rimpianti fuggono via, – gelosie per i mendicanti, i briganti, gli amici della morte, i ritardati d’ogni specie. – Dannati, se mi vendicassi!

Bisogna essere assolutamente moderni.

Niente cantici: mantenere il passo conquistato. Dura notte! Il sangue disseccato mi fuma sulla faccia, e non ho nulla dietro di me, se non quell’orribile arboscello!… La lotta spirituale è brutale quanto la battaglia d’uomini; ma la visione della giustizia è un piacere a Dio solo riservato.

Comunque è la vigilia. Accogliamo tutti gli influssi di vigore e di effettiva tenerezza. E all’aurora, armati di ardente pazienza, entreremo nelle splendide città.

Che dicevo io mai di mano amica! Non è un vantaggio da poco che io possa ridere dei vecchi amori menzogneri, e colpire di vergogna quelle coppie mentitrici, – ho visto l’inferno delle donne, laggiù; – e mi sarà permesso possedere la verità in un’anima e in un corpo.