Varie su Bolano

Dario Voltolini

buco nero
pubblicato sulla rivista Il primo amore – Giornale di sconfinamento Anno V – Gennaio 2010 – n. 8
‘ Il buco nero ‘

Dario Voltolini

Il 16 marzo 2009 Gianni Riotta, nella sua rubrica televisiva di informazione libraria “Benjamin”, aveva sulla scrivania due pile di libri. Alla sua sinistra i libri “da leggere” e alla sua destra quelli da “non leggere”. Il primo di quest’ultima pila era “2666” di Roberto Bolaño. Riotta, premettendo ironicamente che le cose che avrebbe detto lo avrebbero esiliato dalla comunità degli intellettuali, sostenne che il libro aveva due difetti: era “troppo lungo” e non era scritto “per il pubblico”, bensì “per gli intellettuali”.

Non è il caso di analizzare la pregnanza critica di queste categorie, “lungo”, “per il pubblico” e “per gli intellettuali”. È però il caso di chiedersi cosa si intenda per “servizio pubblico”, riferendosi alla RAI, quando in veste di Direttore del TG1, come allora era Riotta, ci si permette di usare così malamente quei pochi minuti dedicati ai libri strappati ai miserabili palinsesti della programmazione.

Questa ovviamente non è e non vuole essere una difesa di Bolaño, tantomeno una difesa da parte “intellettuale”. I cinque romanzi che compongono “2666” appartengono al genere “inclassificabili” e l’opera, un capolavoro, non ha bisogno di essere difesa. Mi chiedo però perché la si sia voluta attaccare, in questo modo poi, falsamente populistico, privo di argomentazioni, ipocrita: Riotta è forse un contadino? un metalmeccanico? un artigiano? che lavoro fa? Mi pare che il suo sia un lavoro intellettuale. È questo che pensa della sua categoria professionale?

“2666” è il libro di Bolaño meno “per intellettuali” che ci sia. E le sue 963 pagine (nell’edizione compatta Adelphi) sono probabilmente meno di quelle che l’autore aveva progettato di scrivere.

Io mi ero tenuto alla larga dai libri di Bolaño per molto tempo. Sapevo che si trattava di uno scrittore di altissima qualità, conoscevo la sua importanza e la stima di cui godeva e molti erano coloro che mi dicevano di leggerlo, di non lasciarmelo scappare. Eppure qualcosa mi frenava. Era precisamente il pregiudizio espresso da Riotta: percepivo l’autore come un intarsiatore meraviglioso, borgesiano, e tutto interno al mondo letterario, alla letteratura come ambiente, il che me lo faceva immaginare come uno scrittore intrappolato dentro la letteratura, che, per quanto grandi e vasti siano i suoi territori, se percepita come separata alla fine denuncia la sua natura claustrale; e ne avevo una sorta di fobia. Ecco lì, il mio pregiudizio. Non tanto uno scrittore “per intellettuali” o come anche si sente spesso dire “per scrittori”, cortocircuitando così l’operazione dello scrivere, quanto un sapientissimo galeotto.

Ma proprio di fronte al mastodonte “2666” il pregiudizio non ha tenuto. Può un fine cesellatore costruire un simile portento (proprio banalmente come mole: non l’avevo ancora letto)? Così mi sono svegliato e ho lasciato da parte le mie vergognose, vuote precomprensioni.

Come sappiamo, Bolaño era in lotta contro il tempo. Malato, aveva una sola possibilità di cavarsela, la quale non si è realizzata. La sua lotta è stata creativa. O la va o la spacca. Ha chiamato a raccolta tutto il suo formidabile talento, tutte le sfumature della sua perizia, tutto l’artigianato e tutta la raffinatezza letteraria che aveva a disposizione. Tutta la sua poetica, tutta la sua forza, di scrittore e di uomo. E non è uscito dalla prigione della letteratura autoreferenziale (vera o presunta che fosse, ma diamola pure per vera) , né dall’angoscia dell’influenza culturale (penso a Borges, alla sua presenza totemica nella letteratura ispanoamericana), con una trovata letteraria, con una mossa calcolata, con una riformulazione teorica e astratta di cosa sia, o possa, o debba essere scrivere. No, lo ha fatto a spallate. Famelicamente, persino ciecamente. Lo ha fatto con un’operazione di forza, di imperio. E sostanzialmente ci è riuscito. La sua opera segna un “punto di ripristino” (come nei computer), ha smosso qualcosa di pesante.

Gli elementi che possono essere catalogati “per intellettuali” hanno preso fuoco insieme ad altri infiniti elementi di ogni tipo, dentro “2666”, e se anche qualche scoria restasse, quello che non possiamo non fare è restare strabiliati dall’incendio che il libro è. Non possiamo non restare strabiliati come lettori, come persone che si accostano a un’opera d’arte. A un’opera di genio. Chi se ne frega dell’intellettuale, dello stagnino, del calciatore? Qui c’è un buco nero dalla forza gravitazionale spaventosa, riprodotto in opera letteraria, in scrittura. Ma è un buco nero vero, non solo letterario. Certo, è il motore immobile e abissale della struttura compositiva del libro, il punto di destino di tutte e cinque le grandi storie che compongono l’opera; certo, è collocato lì da una mano sapiente, di un narratore infinitamente dotato, da un artista che sa il fatto suo come pochissimi altri. Certo, è la città di Santa Teresa , in quanto tale un’invenzione letteraria.

Ma è anche la città reale messicana che si chiama Ciudad Juárez , al confine con il Texas, nel deserto di Sonora. Questa è la città buco nero del pianeta, la più pericolosa del mondo, la città assassina. Lì sta continuamente morendo in emblema l’umanità attuale. Lì l’economia sommersa e illegale mostra il suo volto orribile. Esiste veramente, esiste mentre noi celebriamo le giornate della memoria affinché non dimenticare ci salvi dal ripetere. Se ne parla tanto, di Ciudad Juárez: se ne parla tanto ogni tanto. Ora che vi brillano anche le bombe oltre ai soliti delitti di donne che l’hanno resa celebre, se ne parla di nuovo un po’. In questo buco nero emblematico vive e cresce una forza immensa, che ci tira giù. Nulla del nostro mondo economico è comprensibile se nei calcoli degli esperti possono entrare solo i cespiti di ricchezza ufficiali. L’economia illegale cresce e cresce il suo peso . Le banche della Florida possono da un momento all’altro collassare, se i narcotrafficanti ritirano i loro danari. Cresce il PIL di questo stato-ombra planetariamente diffuso, cresce il suo peso. La vera Ciudad Juárez ne è il simbolo, forse la capitale. La letteraria Santa Teresa è il suo correlato spirituale, incastonato nell’opera meravigliosa che è “2666”.

In questo, come in pochi altri libri, il lettore avverte in piani di vibrazione bassa, normalmente inattingibili, la presenza e la potenza di un movimento che non è solo narrativo, non sta solo nella pagina e non è meramente funzione di una struttura compositiva, e nemmeno solo il portato di un’intuizione poetica. Si tratta di un movimento profondo che coinvolge tutta la scrittura, ogni singola frase ne è distorta, ogni movimento esplicito di un personaggio segue anche il suo movimento implicito, lo si sente, lo si avverte. Il suono di ogni frase detta da un personaggio è leggermente distorto dall’effetto Doppler del movimento generale. È il correlato dei movimenti planetari, delle curvature del tempo e dello spazio di cui parla la fisica. La faglia tettonica che si sposta sotto di noi di solito non la avvertiamo, se non nei momenti catastrofici dei terremoti, degli tsunami, eppure il suo movimento e la sua energia ci sono, sono sempre attivi. Forse da qualche parte dentro di noi un sensore per queste traslazioni ce l’abbiamo, ma lontano, seppellito chissà in quale parte del nostro essere. Talvolta ci manda un segnale, che ci lascia sgomenti. In quest’opera, come in poche altre opere, l’esperienza di lettura che possiamo fare è proprio quella che ci parla laggiù, in quella parte di noi e degli altri animali (che segnalano l’arrivo del terremoto, loro, le bestie: altroché “per intellettuali”).

Quando l’inumano camino dell’incendio di Dresda scatenato dalle bombe alleate era al massimo della sua potenza, ergendosi nel cielo, stuprandolo, dal centro della città, un vento apocalittico soffiava forte dalle periferie verso il nucleo rovente, un vento chiamato lì dalla corrente ascensionale del nucleo incendiato centrale, un vento che strappava ogni cosa via dal suo posto e la faceva precipitare nel fuoco, dando così altro alimento al fuoco, altra corrente ascensionale, altro vento centripeto a spazzare la città. Santa Teresa, Ciudad Juárez, funzionano allo stesso modo, nel libro, nel pianeta. E il libro lo ha scritto Roberto Bolaño, un libro per tutti, lettori o no, come per tutti dovrebbe essere il pianeta.

Ho avuto la fortuna di conoscere e di passare qualche ora con Sergio Gonzáles Rodríguez , l’autore di “Ossa nel deserto”, libro indagine sulla maledetta città in questione. Sergio stavano per farlo fuori, poiché aveva osato andare a vedere e poi era tornato a riferire cosa stava capitando là nel deserto. Dentro un taxi, a mazzate, a città del Messico, addirittura così lontano dai luoghi dei delitti. Se l’è cavata per caso, ci sente grazie a un apparecchio acustico. Mi ha detto che era in contatto con Roberto Bolaño, il quale per e-mail gli chiedeva continuamente dettagli sulle donne assassinate, mentre componeva “La parte dei delitti” per “2666”. Erano amici, si stimavano. Nel suo libro Sergio Gonzáles Rodríguez ipotizza una spiegazione, se può essere chiamata così, della furia omicida che falcia le donne di Ciudad Juárez. Una spiegazione ributtante. Dice che qualcosa dei riti di affiliazione mafiosa, riti di passaggio per entrare a far parte di una cosca, o famiglia, si è saldato con altri riti arcaici locali, di sacrificio a una divinità di morte. Una miscela ripugnante, una di quelle cose che la nostra specie sa creare. Nel versante letterario (fiction!) di Bolaño non ci sono spiegazioni. C’è solo una specie di litania tendente all’ipnotico, un catalogo di ascendenza biblica di delitti e di delitti ancora. Ha una grande forza, diversa dalla forza delle pagine di “Ossa nel deserto”, sebbene non sia la parte migliore dell’opera, sebbene proprio lì rifaccia capolino l’occhio del cobra iperletterario. Comunque ha una grande forza, nonostante ciò.

Sergio Gonzáles Rodríguez mi ha detto che Bolaño stava probabilmente pensando di comporre una sesta parte dell’opera (o forse pensava di comporne tante altre, finché il tempo glielo avrebbe permesso), un romanzo per così dire “di fantascienza”. Qualcosa ambientato nel futuro. Forse in questa ipotesi trova spazio una spiegazione dello strano, indecodificabile titolo “2666”. In questo caso ciò che noi abbiamo fra le mani sarebbe solo un libro parziale, anche se misteriosamente completo e impeccabilmente rifinito in ogni sua parte, in ogni dettaglio. Come Proust, Bolaño è morto mentre stava ancora componendo. Come Proust, e come molti altri, era impegnato in una prova di forza e di resistenza, prima ancora che di scrittura, di stile, di immaginazione e di cultura. Era all’interno di una decisione presa per la vita, un atto di cui gli uomini sono anche capaci. Una forma di decisione, una visione del proprio impegno, un’intuizione su tipo di tavolo – sul genere di partita – su cui giocare tutte le proprie carte che non è, ovviamente, appannaggio degli scrittori, ma di tutti quanti.

Resta questo libro, con dentro incastonato e pulsante un buco nero. Con attorno le deformazioni, le raffiche di informazioni, le contorsioni gravitazionali.

Un libro lungo, per gli intellettuali. Un libro vivo, per le persone per bene.
playlist indice dei testi di Voltolini sull’Archivio Bolaño

NOTE

Dario Voltolini, Torino 1959. Scrittore e librettista. Il suo ultimo libro di narrativa è “Foravìa”, Feltrinelli 2010.

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Presentazione del libro “Foravia”, di Dario Voltolini e Alessandro Baricco
il video puo essere visto in 4 parti su you tube torna su
Pochi scrittori come Bolano sono stati capaci di rimettere al centro della letteratura il lettore, specie in via di estinzione che, grazie agli scribacchini e ai mercatnti è stato degradato al rango di consumatore di prodotti standard quanto sterile. E’ questo il pubblico a cui fa riferimento in modo cinico e demagogico, il sig. Riotta, massa informe e passiva, target per libri standard (“non troppo lunghi”, nè profondi costruiti in laboratorio, con il giusto mix di ingredienti). Di questo “pubblico” e dei suoi esegeti, l’opera può e deve fare a meno.

E sì, i libri e il pianeta di Bolaño sono inequivocabilmente bolañeschi o bolañisti. Il che significa, che le creature di Bolaño sembrano sempre vivere saldamente sistemate – in un modo o nell’altro – nella letteratura, mentre Bolaño si nutriva e viveva di letteratura: i libri di Bolaño scrittore sono pieni di libri e di scrittori. “La verità è che leggere è sempre più importante che scrivere“, disse; e ho conosciuto poche persone che amavano o provavano più piacere per l’arte della lettura e che godevano – un dettaglio importante – nel descrivere con le loro parole quello che stavano leggendo, ciò che altri avevano scritto. Bolaño credeva in poche cose, ma una di queste, ne sono convinto, era il potere curativo e di redenzione delle parole leggere e scrivere….

Pochi scrittori contemporanei sono riusciti a infettare il lettore, invitandolo generosamente a suo rischio e pericolo e piacere, nell’avventura di un libro vivente, mentre viene letto come se fosse stato scritto. Mi spiego: la scrittura notturna a capofitto di Bolaño, (scriveva di notte, non stop) – gareggiando contro tutti gli imprevisti per raggiungere l’ultima pagina – lavora sul lettore, producendo un effetto simile. Non importa che ora sia quando leggete I detective selvaggi o 2666 non mancherà molto prima che cadiate in una specie di trance, più o meno tra sonnambulismo e ipnosi.
[Rodrigo Fresan, Il detective selvaggio torna su
Javier Cercas in proposito così risponde a coloro che accusano Bolaño di avere come unico tema la letteratura, o peggio ancora, la vita letteraria:

Per quanto riguarda il secondo rimprovero, parte da una premessa vera, perché è un fatto che la scrittura di Bolaño si tenda fino al limite quando ciò di cui tratta è un assunto solo letterario, però arriva ad una conclusione erronea, perché ciò non lo converte in uno scrittore endogamico, autocompiacente e solipsista: nei libri di Bolaño la letteratura o la vita letteraria è solo una metafora della vita, e uno dei principali meriti di Bolaño consiste nell’aver dotato l’aggeggio letterario di una dimensione quasi epica, nella quale tutte le passioni, le vertigini e le perplessità dell’essere umano scoprono una espressione lacerata e nuova.
Javier Cercas, Print the legend torna su
Nel 2010 si sonono registrate in Messico 12.658 “esecuzioni” (omicidi del crimine organizzato) con un incremento del 52% rispetto al 2009.
Nello stato di Chihuahua, dal dicembre 2006 ci sono stati 10.587 esecuzioni (omicidi su commissione) di cui il 57% sono stati commessi a Ciudad Juárez. Ciudad Juárez ha mantenuto il record della città più violenta del messico con 2.944 omicidi.
La Comisión Nacional de los Derechos Humanos ha comunicato che nel 2010 sono stati sequestrati da parte del crimine organizzato, 11.333 migranti clalndestini provienti dai apesi del centroamerica.
Nel 2010, sono morti 755 poliziotti e militari per mano del crimine organizzato.
Nel triennio 2007-2009, nonostante la crisi dell’economia USA e le misure legali e di rafforzamento della frontiera USA_messico (lunga 3.185 km e che registra il maggior numero di transiti al mondo) si sono registrati 300.000 migrazioni clandestine dalla frontiera messicana
Centinaia di donne sono state assassinate negli ultimi anni a Ciudad Juarez e altrettante donne sono scomparse. il 6 gennaio 2011 è stata assassinata Susana Chávez, poeta e attivista che aveva coniato slogan “ni una mas”.
Narco traffico (che sviluppa un giro d’affari di oltre 30 miliardi di dollari), gestione del traffico dell’emigrazione clandestina, e sfruttamento del lavoro da parte delle aziende statunitensi che insediano fabbriche di montaggio (maquilladoras), con un salario di due dollari al giorno.
[cfr anche le pagine dedicate al Messico ]

intervista a Labrizio Lorusso
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racconta Sergio Gonzales Rodriguez

Bolaño Venne a conoscenza, in discussioni con amici comuni, come Jorge Herralde e Juan Villoro, che stavo elaboranto un libro sul femminicidio juarense, e si mise in contatto con me per posta elettronica. Voleva conoscere dettagli molto specifici della vita delinquenziale a Ciudad Juarez. Era molto ben informato sugli assassinii seriali, consoceva il tema in profondità, però voleva che lo informassi di cose come le armi, i calibri, le auto che usavano i narcotrafficanti, o mi sollecitava che gli trascrivessi atti giudiziali dove venivan odescritti gli omicidi. Inoltre ci scambiavamo punti di vista sugl iassassini o iprobabili assassini e circa le opinioni dei criminologi e criminalisti. Era veramente ossessionato dal tema, un detective selvaggio. E il risultato delle sue conoscenze è toccante Nell’autunno del 2002 potei visitarlo a casa sua A Blanes, gia’ aveva letto Ossa nel deserto e in quell’ocacsione mi comunicò che sarei apparso come eprsonaggio nel suo romanzo, con il mi ostesso nome. ” ho rubato l’idea a Javier Marías, che gia’ ti ha inserito come personaggio nel suo romanzo Nera spalla del tempo….”, mi disse. Sorrideva e fumava, molto divertito. mentre io lo ascoltavo, sprofondavo nell’ambigua sensazione tra l’orrore e l’onore: Ancora non mi sono ripreso dall’impatto di leggermi come protagonista letterale in una simile tragedia…Fu molto generoso a recensire il mio libro e non ebbi mai l’impressione che la sua vida stava per giungere alla fine. Mesi dopo lessi 2666 e mi impressionò la trama amgistrale, la minuziosa ricostruzione dell’inferno juarense, che per ragioni letterarie situa in un posto chiamato Santa Teresa. Scrivere quelal paret deve essere stato un esercizio estremo. La vasta trascendenza di questo romanzo sarà riconosciuta nel futuro
[Sergio González Rodríguez] torna su

ascolta l’intervista di radio 3 a Dario voltolini: