Opere di Bolaño

Arthur Rimbaud – Lettere del veggente – Lettera a Paul Demeny

Lettera a Paul Demeny

Eppure Archiloco narra o canta la sua vigliaccheria senza il minimo imbarazzo:

Uno dei sai si gloria del mio scudo, arma perfetta
che ho abbandonato vicino a un cespuglio, mio malgrado:
però ho salvato me stesso. Che importa di questo scudo?
Vada in malora: me ne compreè un altro non peggiore

…Molto lontano dalla Grecia, e in un’altra epoca, un altro poeta, Snorri Sturluson (1178-1241), che amava i coraggiosi, conobbe anche lui in una sola notte la paura e l’immagine reale del coraggio: un campo d’ossa che tutti dobbiamo attraversare. la figura del coraggioso è molteplice e cangiante. A volte è un’ombra che incombe sulle nostre teste. a volte una luce alla quale, irragionevolmente, rimaniamo fedeli. Per la mia generazione l’immagine del coraggio è legata a Billy the kid, che si giocava la vita per denaro, e a Che Guevara, che se la giocava per generosità; a Rimbaud, che camminava solo nella notte, e a Violeta parra, che apriva finestre nella notte: Il coraggio non serve a niente, ci disse con allegria, con inconscienza, il poeta e soldato spagnolo Alonso de ercilla, il più generoso dei coraggiosi e forse uno dei più dimenticati, ma senza coraggio non si può vivere
[R.B.: Tra parentesi , Il coraggio, pag. 157-158]
La Lettera del Veggente

A Paul Demeny
a Douai

Charleville, 15 maggio 1871.

Ho deciso di offrirle un’ora di letteratura nuova. Comincio subito con un salmo di attualità:

Chant de guerre parisien
Le Printemps est évident, car…
A. Rimbaud.

– Ed eccole ora della prosa sull’avvenire della poesia: – Tutta la poesia antica sfocia nella poesia greca, Vita armoniosa. – Dalla Grecia al movimento romantico, – medioevo, – ci sono letterati, versificatori. Da Ennio a Teroldo, da Teroldo a Casimir Delavigne, tutto è prosa rimata, giuochetto, smidollamento e gloria di innumerevoli generazioni idiote: Racine è il puro, il forte, il grande. – Se qualcuno avesse soffiato sulle sue rime e ingarbugliato i suoi emistichi, quel Divino Sciocco oggi sarebbe sconosciuto quanto un qualsiasi autore di Origini. Dopo Racine, il giuochetto fa la muffa. E’ durato duemila anni!

Non è uno scherzo né un paradosso. La ragione m’ispira sull’argomento certezze più numerose delle collere che avrebbe potuto avere un Jeune-France. Del resto, i nuovi sono liberi di esecrare i vecchi: siamo a casa nostra e non è certo il tempo a mancarci.

Il romanticismo non è stato mai giudicato bene. E chi avrebbe potuto giudicarlo? I critici!? O proprio quei romantici che ci provano così bene che la canzone è rarissimamente l’opera, e cioè il pensiero cantato e capito dal cantore?

Infatti; Io è un altro. Se l’ottone si desta tromba, non è certo per colpa sua. La cosa mi pare ovvia: io assisto allo sbocciare del mio pensiero: lo guardo, lo ascolto: do un colpo d’archetto: la sinfonia si agita nelle profondità, oppure salta con un balzo sulla scena.

Se i vecchi imbecilli non avessero trovato dell’Io che il significato falso, non avremmo da spazzar via questi milioni di scheletri che, da tempo infinito, hanno accatastato i prodotti del loro guercio intelletto, proclamandosene fieramente gli autori!

In Grecia, dicevo, versi e lire ritmano l’Azione. Dopo, musica e rime sono giuochi, svaghi. Lo studio di questo passato seduce i curiosi: parecchi si lasciano andare con gioia a rinnovare queste anticaglie: – a loro sta bene. L’intelligenza universale ha sempre sparso le sue idee naturalmente; gli uomini raccoglievano una parte di questi frutti del cervello: agivano mediante, scrivevano libri con esse: così andava avanti la faccenda, poiché l’uomo non lavorava a se stesso, non essendo ancora desto, o non ancora nella pienezza del gran sogno. Funzionari, scrittori: autore, creatore, poeta, quest’uomo non è mai esistito!

Il primo studio dell’uomo che voglia esser poeta è la sua propria conoscenza, intera; egli cerca la sua anima, l’indaga, la scruta, l’impara. Appena la sa, deve coltivarla; la cosa sembra semplice: in ogni cervello si compie uno sviluppo naturale; tanti egoisti si proclamano autori; ce ne sono molti altri che si attribuiscono il loro progresso intellettuale! – Ma si tratta di rendere l’anima mostruosa: come i comprachicos , insomma! Immagini un uomo che si pianti verruche sul viso e le coltivi.
Io dico che bisogna esser veggente, farsi veggente.

Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di pazzia; cerca egli stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto, – e il sommo Sapiente! – Egli giunge infatti all’ignoto! Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di qualsiasi altro! Egli giunge all’ignoto, e quand’anche, sbigottito, finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrebbe pur viste! Che crepi nel suo balzo attraverso le cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti sui quali l’altro si è abbattuto!

– Il seguito fra sei minuti –
Qui inserisco un secondo salmo, fuori testo: porga, la prego, un compiacente orecchio, – e tutti saranno deliziati. – Ho in mano l’archetto, comincio:

Mes petites amoureuses
Un hydrolat lacrymal lave…
A. R.

Ecco. E noti bene che, se non temessi di farle sborsare più di 60 centesimi di tassa, – io, povero sventurato che, da sette mesi, non ho avuto in mano neanche un soldo di bronzo! – le darei anche i miei Amanti di Parigi, cento esametri, egregio Signore, e la mia Morte di Parigi, duecento esametri! – Riprendo:
Dunque il poeta è veramente un ladro di fuoco.
A suo carico sono l’umanità, gli animali addirittura; dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che riporta di laggiù ha forma, egli dà forma; se è informe, egli dà l’informe. Trovare una lingua; – Del resto, dato che ogni parola è idea, verrà il tempo di un linguaggio universale! Bisogna essere un accademico, – più morto di un fossile, – per rifinire un dizionario, di qualunque lingua sia. Se dei deboli si mettessero a pensare sulla prima lettera dell’alfabeto, rovinerebbero subito nella pazzia! Questa lingua sarà anima per l’anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori; pensiero che uncina il pensiero e tira. Il poeta definirebbe la quantità di ignoto che nel suo tempo si desta nell’anima universale: egli darebbe di più – della formula del suo pensiero, della notazione della sua marcia verso il Progresso! Enormità che si fa norma, assorbita da tutti, egli sarebbe veramente un moltiplicatore di progresso!

Quest’avvenire sarà materialista, lo vede; – Sempre piene di Numero e di Armonia, queste poesie saranno fatte per restare. – In fondo, sarebbe ancora un po’ la Poesia greca.
L’arte eterna avrebbe le proprie funzioni, così come i poeti sono cittadini. La Poesia non ritmerà più l’azione; sarà avanti.
Questi poeti saranno! Quando sarà spezzata l’infinita schiavitù della donna, quando ella vivrà per sé e grazie a sé, dopo che l’uomo, – finora abominevole, – l’avrà congedata, sarà poeta anche lei! La donna troverà dell’ignoto! I suoi mondi d’idee saranno diversi dai nostri? – Troverà cose strane, insondabili, ripugnanti, deliziose; noi le prenderemo, le capiremo.
Nel frattempo, chiediamo ai poeti il nuovo, – idee e forme. Ogni mestierante potrebbe credere ben presto di avere soddisfatto tale domanda. – No, non è così!
I primi romantici sono stati veggenti quasi senza rendersene conto: la coltivazione delle loro anime ha preso inizio da incidenti: locomotive abbandonate, ma ardenti, imprigionate per qualche tempo dalle rotaie.
– Lamartine, talvolta è veggente, ma strozzato da una forma vecchia. – Hugo, troppo testardo, ha, pure, del visto negli ultimi volumi: I Miserabili sono una vera poesia. Ho I Castighi sotto mano; Stella dà pressapoco la misura della vista di Hugo. C’è troppo Belmontet e Lamennais, troppo Geova e colonne, vecchie enormità sgonfiate.
Musset è quattordici volte esecrabile per noi, generazioni dolorose e in preda alle visioni, – insultate dalla sua antica pigrizia! Oh! Quegli insipidi racconti e proverbi! Oh, quelle notti! Oh, quel Rolla, quella Namouna, quella Coppa! Tutto è francese, e cioè sommamente odioso; francese, non parigino! Ancora un’opera di quell’antipatico genio che ha ispirato Rabelais, Voltaire, Jean de la Fontaine! Commentato dal signor Taine! Primaverile, lo spirito di Musset! Delizioso, il suo amore! Eccola lì, e a iosa, la pittura su smalto, la poesia solida! La poesia francese sarà centellinata ancora per molto tempo, ma in Francia. Non c’è garzone di bottega che non sia capace di buttar giù un’apostrofe in stile Rolla, non c’è seminarista che non porti quelle cinquecento rime nel segreto del suo taccuino. A quindici anni, quegli slanci di passione mettono i giovani in foia; a sedici anni, si accontentano già di recitarli con sentimento; a diciotto anni, anche a diciassette, qualsiasi collegiale che ne abbia la possibilità, fa il Rolla, scrive un Rolla! Qualcuno forse è ancora capace di morirne. Musset non ha saputo fare nulla: c’erano visioni dietro la garza delle tende: lui ha chiuso gli occhi. Francese fiacco, trascinato dalla taverna al leggio del collegio, quel bel morto è ben morto, e, ormai, non diamoci nemmeno più la pena di ridestarlo col nostro vituperio! I secondi romantici sono molto veggenti: Th. Gautier, Lec. De Lisle, Th. de Banville. Ma siccome investigare l’invisibile e udire l’inaudito è cosa diversa dal riprendere lo spirito delle cose morte, Baudelaire è il primo veggente, il re dei poeti, un vero Dio. Tuttavia egli è vissuto in un ambiente troppo artistico; e la forma tanto vantata in lui è meschina: le invenzioni d’ignoto richiedono forme nuove.

Rotta alle forme vecchie, fra gli innocenti, A. Renaud, – ha rollificato; L. Grandet, – ha rollificato; i Galli e i Musset, G. Lafenestre, Coran, Cl. Popelin, Soulary, L. Salles; gli scolaretti, Marc, Aicard, Theuriet; i defunti e gli imbecilli, Autran, Barbier, L. Pichat, Lemoyne, i Deschamps, i Desessarts; i giornalisti, L. Cladel, Robert Luzarches, X. De Ricard; gli estrosi, C. Mendès; i bohème; le donne; i talenti, Léon Dierx, Sully-Prudhomme, Coppée, – la nuova scuola, detta parnassiana, ha due veggenti, Albert Mérat e Paul Verlaine, un vero poeta. – Ecco. – Così lavoro a rendermi veggente. – E terminiamo con un canto pio.

Accroupissements
Bien tard, quand il se sent l´estomac écœuré,

Lei sarebbe esecrando se non mi rispondesse; e faccia presto, ché fra otto giorni sarò a Parigi, forse.
Arrivederci,
A. RIMBAUD

NOTE

riportiamo il commento di Mauro Baldrati

La Lettera del Veggente porta la data del 15 maggio 1871, era indirizzata al poeta Paul Demeny, amico di Georges Izambard, una figura importante nella vita e nella formazione di Arthur Rimbaud: giovane professore del Ginnasio, intellettuale repubblicano e laico (e per questo particolarmente odiato dalla madre, una donna dura, bigotta, dalla quale Rimbaud non riuscì mai a separarsi veramente) lo iniziò alle letture dei romantici e dei parnassiani.
Rimbaud aveva 16 anni e sette mesi, l´età, come aveva scritto un anno prima a Théodore de Banville, “delle speranze e delle chimere’. In realtà era un´età virtuale, perché nella lettera a Banville mentiva, si presentava come diciassettenne, in realtà non aveva ancora compiuto i 16. Ma Rimbaud era avanti, sempre avanti, bruciava in fretta la vita e il tempo, proprio come quella candela accesa da entrambi i lati immortalata in Blade Runner.
Era reduce dalla sua terza fuga a Parigi, in cerca di fortuna, di un rifugio dall´inferno-delizia di Charleville, la cittadina delle Ardenne dove, come scriveva a Izambard un anno prima, “muoio, mi decompongo nella scipitaggine, nella meschinità, nel grigiore’ (ma, scriverà due anni dopo a Delahaye, “rimpiango l´atroce Charlestown’).
Il 18 marzo a Parigi aveva preso il potere La Comune, alla quale Rimbaud si sentiva di aderire totalmente (aveva anche scritto un abbozzo di Costituzione Comunista), quella società rivoluzionaria e democratica che finalmente potesse spazzare via tutti i bigotti, i tronfi borghesi, i falsi poeti, oggetti del dileggio, del sarcasmo feroce e aggressivo di tante poesie. E proprio alla lettera erano allegati tre testi: Il Canto di guerra Parigino, dedicato alla Comune e alla violenta repressione da poco sferrata dai versagliesi; Le mie dolci fanciulle innamorate, considerata un´ode alla misoginia, ritmata da un ritmo frenetico, rabbioso, quasi antipoetico. Secondo S. Bernard questa poesia fu scritta probabilmente in seguito a una delusione amorosa, invece secondo Ivos Margoni, che ha curato l´opera completa, sarebbe una presa di coscienza della propria tendenza omosessuale. Comunque sia, colpisce il tono sarcastico, apparentemente antifemminile (“O mia racchiona blu!’), contrapposto all´aperto femminismo della Lettera: “Quando sarà spezzata l´infinità schiavitù della donna, quando ella vivrà per sé e grazie a sé’. La terza poesia, “un canto pio’, L´Accovacciato, è la lapidazione grottesca di quel bonhomme pigro, vile, meschino e subumano che rappresentava la quintessenza del suo disprezzo.

Quindi il sedicenne Rimbaud, all’apice della sua rabbia di adolescente ribelle, sta vergando velocemente, nervosamente, come suo solito, un documento che sarà considerato il primo, vero manifesto di una nuova letteratura d’avanguardia. In questo testo il nuovo viene contrapposto al vecchio, attraverso un processo di ricerca, oscuro, devastante, che farà del Poeta un “veggente”, un “orribile lavoratore” che punta all’ignoto, verso orizzonti sconosciuti, dove la poesia non ritmerà più l’azione, ma la supererà.

“Io dico che bisogna essere veggente (…), mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi.”

Sono state fatte innumerevoli letture di questo passo. Per alcuni è una proiezione biografica di Rimbaud, della sua continua ricerca per liberare la mente; ed è stato letto in chiave autodistruttiva, come in parte autodistruttivo sarà il percorso del suo autore, che culminerà a Londra con l´amico e compagno Verlaine a sperimentare droghe, alcol, vita miserabile, e che fu oggetto di identificazione per esempio da Jim Morison, durante la sua breve vita. Sono state individuate componenti mistiche, di occultismo, demoniache, di derivazione romantica e baudelairiana. Eppure sono altre le letture possibili. Nella Lettera del Veggente Rimbaud insegue soprattutto una nuova poetica, e un nuovo stile. Lo scrive, con parole più semplici, in una lettera di due giorni prima a Georges Izambard, quando parla di “poesia oggettiva’. E´ un punto importante, rivela la concezione del poeta-lavoratore che crede nel progresso, nel futuro, nella liberazione materiale del popolo, dei “gaglioffi’ della Comune (“in questo momento mi ingaglioffo il più possibile’ scrive a Izambard). Il Veggente quindi non è solo il navigatore di un moderno irrazionalismo, ma è un ricercatore di quell´Io universale, non territoriale, che accomuna tutte le persone in una “sinfonia profonda’: l´Io che “è un altro’ (e qui Rimbaud sembra riscrivere, come faceva spesso, il “Je suis l´autre’ di Nerval). Lo sregolamento può essere quindi un cammino, lungo e accidentato – sofferente, folle, ma non necessariamente autodistruttivo – per superare, attraverso una ricerca verso territori mentali non esplorati, la soggettività dell´arte vecchia, quella “poesia soggettiva’ che imputava a Izambard fatta di “canzoni’ più che di opere capite, di sofferenze individuali: “quest´avvenire sarà materialista’, è una frase che può, deve essere presa alla lettera, e non sempre e solo in chiave simbolica, per caricarla di significati che la riscattino dalla sua apparente banalità. L´arte, la Poesia, segue la vita, e si libera con la liberazione dell´uomo dalla schiavitù, dalla miseria e dall´oppressione. Echeggiano certamente gli scrittori democratici, etici, dell´epoca romantica, Hugo in primis, che Rimbaud leggeva e amava. Ma il superamento rimbaldiano è importante per il progetto di una scrittura collettiva, inseguita, progettata dal grande sapiente, dal “grande maledetto’. Per questo deve “trovare una lingua’, che sarà “l´anima per l´anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori.’ Intuizione prodigiosa, la scrittura come “macchina totale’ che racchiude le immagini, i suoni, gli odori. Come non pensare alle due macchine più potenti del primo Novecento, Proust (il quale peraltro non doveva amare particolarmente Rimbaud, lui, fine baudelairiano), che attraverso il suo stile in divenire sembra mettere in pratica la sfida rimbaldiana in un´opera compiuta; e Kafka, col suo disseccamento dall´interno della lingua “di carta’ dominante, produce davvero una scrittura collettiva, una scrittura minore estranea a tutti gli estetismi e i lirismi.