Varie su Bolano

I Bolano nella distanza

Il critico Juan Antonio Masoliver ha scritto ne “La Vanguardia” riguardo I detective selvaggi, il romanzo di Roberto Bolaņo: ” propone un nuovo ordine letterario di cui fanno parte Monterroso, Ibargüengoitia o Monsiváis. I sui lettori ideali sarebbero Luis Maristany, Juan Villoro o Enrique Vila-Matas, vale a dire i difensori della stravaganza” .

Č possibile – mi dico ora – che abbia verificato di potermi considerare un lettore idoneo del romanzo di Bolaņo. Di fatto, mi sento molto vicino a tutta l’opera dello scrittore cileno. Č possibile perfino che sia lo scrittore che pių mi somiglia o viceversa: sono lo scrittore che pių somiglia a Bolaņo. La causa sta forse nella coincidenza, a volte quasi perfetta quanto a gusti ed avversioni letterarie.

La veritā – se ci penso bene – č che tutto questo č molto nuovo e strano per me. Da quando ho iniziato a scrivere e a pubblicare, mai che io ricordi mi sono imbattuto con qualche scrittore che mi ricordasse la mia persona. Solo in questi ultimi anni si č prodotto questo strano fenomeno.

Scrivo questo e avverto la repentina tentazione di allontanarmi un poco da Bolaņo. Mi viene in mente il titolo di un bolero, e lo cambio ora maliziosamente per scrivere questo: Bolaņo nella distanza.

Una precisazione ora in relazione al fatto che sono un difensore della stravaganza. Masoliver non sta facendo solo riferimento al fatto che io debba difendere la stranezza letteraria o l’eccentrico. Credo che non sta parlando solamente di questo. Piuttosto Masoliver sta strizzando l’occhio a un articolo che pubblicai qualche anno fa, dove riprendevo alcune parole di Juan Villoro, che sua volta riprendeva altre parole, quelle dello scrittore argentino César Aira, che ben potrebbe essere anche lui un lettore ideale di Bolaņo. Dicevo in quell’articolo: “vengo a conoscenza da Juan Villoro delle parole dello scrittore argentino César Aira che, in una recente intervista, si riferisce al mito letterario che domina il nostro fine secolo, quello dello scrittore gentleman, professionale, che non confonde i libri con le persone e disdegna il carisma come prolungamento delle opere. Eduardo Mendoza, Muņoz Molina, Juan José Millás e Javier Marías, per esempio, illustrano, alla perfezione questo modello di fine millennio. Sono lontani da Gōmez de la Serna, che recitava dal dorso di un elefante, o di Valle-Inclān, che si lamentava che non gli permettessero di salire a bordo di un tram con due leoni”.

A proposito di tutto ciō, Juan Villoro aggiungeva per conto suo: “nelle arti plastiche la figura del Gran Fantoche – la costruzione di una personalitā deliberatamente ingannevole – fu ancora possibile con Dalė o Warhol. Nella letteratura dobbiamo tornare all’etā bohémien per trovare qualcuno che fece dell’insolenza un’estetica e della gestualitā una strategia. Tra di essi il campione assoluto č Valle-Inclān”.

Stravaganza, cioč, intesa come la trasformazione di se stesso in “un personaggio letterario”. Vita e letteratura abbracciate come il toro con il torero e componendo una sola figura, un corpo solo. Qualcosa di simile a quello che diceva Kafka a Felice Bauer: “il mio modo di vivere č organizzato unicamente in funzione della scrittura”. Oppure quest’altro anch’esso rivolto alla povera Bauer: “non č che abbia una certa tendenza alla letteratura č che sono la letteratura”.

Stravaganza, d’altra parte, intesa – mi viene ora in mente – come una militanza allegra nel mondo degli scrittori che non vogliano avere un passaporto: artisti dell’anima nomade, nemici dei viaggi obbligati, che non seguono altri percorsi se non quelli della propria stella, anche se questa fosse distante come la stella di Bolaņo. Artisti che non vogliono nessun passaporto, come diceva Jacques Audiberti di se stesso. E aggiungeva:
meglio non cercare.
Meglio lanciarsi cosė, a testa bassa.
E che succeda!”.

l’autore de I detective selvaggi vede il mondo come un complicato sistema di relazioni, che č prodotto a sua volta di molteplici sistemi interconnesi
All’artista dell’anima nomade che č Bolaņo – da cui ora torno a sentire la tentazione di allontanarmi ancora un po’ di pių – i versi di Aliberti di sicuro lo accompagnano in molti luoghi nella sua radicale stravaganza: questa stravaganza che scorre serena lungo le 447 pagine de I detective selvaggi. Ho con Bolaņo una grande affinitā con tutti quegli esseri erranti che appaiono nel suo romanzo: esseri che a me sembra che vagano in luoghi strani, in esterni privi di interni come schegge alla deriva superstiti di un mondo che non č mai esistito (le molteplici voci della parte centrale del libro). Queste voci io direi che sono schegge superstiti estranee a qualsiasi orbita – č come dire, qualcosa di simile ai volatili del Beato Angelico immortalate da Antonio Tabucchi -, schegge che navigano in spazi familiari che, tuttavia, sono di una geometria sconosciuta.

Ne I detective selvaggi, a volte alcune delle voci della parte centrale del libro mi sono sembrate non solo stravaganti, ma anche eccentriche rispetto a se stesse, profughe perfino dell’idea bolaņiana – un aggettivo di certo, di nuovo conio – che le pensō. E la causa pių che possibile che questo possa succedere risiede nell’impressionante lavoro di Bolaņo sul linguaggio. di questo romanzo forse la cosa pių sensazionale č questo lavoro sul linguaggio, la quantitā di differenti registri di voce che Bolaņo va accumulando. C’č un estesa e brillante utilizzazione semantica delle diverse voci che nella parte centrale del romanzo intervengono a mo’ di testimonianza casuale del misterioso destino dei due protagonisti de I detective selvaggi, Arturo Belano e Ulises Lima. Queste voci o testimonianze fatte da personaggi quanto pių diversi, in date e luoghi molto lontani, dal 1976 a 1996, appartengono a linguaggi molto diversi: colloquiali o intellettuali, spagnoli o messicani….. Siamo di fronte a un effervescente magma linguistico di grande varietā. Giā Solo per la capacitō di dominio di tanti registri linguistici, il romanzo di Bolaņo merita di occupare un posto di rilievo nella narrativa contemporanea. Č cosė superbo il lavoro sul linguaggio di Bolaņo che questo scrittore mi sembra un chiaro scrittore extraterritoriale dotato di punti di vista convincenti rispetto al disordine dell’Universo e al modo di trasformarlo in materia narrativa.

Io direi che l’autore de I detective selvaggi vede il mondo come un complicato sistema di relazioni, che č prodotto a sua volta di molteplici sistemi interconnesi. In altri termini vede il mondo in un modo pių o meno simile a – per citare un grande scrittore che di sicuro Bolaņo ammira – come lo vede Carlo Emilio Gadda.

Č molto probabile, pertanto, che Bolaņo appartenga alla famiglia letteraria che riunisce Italo Calvino intorno a una delle sue proposte per il prossimo millennio: quella della molteplicitā .

Scrivo questo e respiro sollevato e mi allontano un po’ di pių da Bolaņo. Non siamo – ora me ne accorgo – nemmeno tanto simili come credevo che fossimo. Io piuttosto sono uno scrittore di un’altra sezione del libro di Italo Calvino. Io piuttosto appartengo agli scaffali degli scrittori della leggerezza .

Non sta male, torno a respirare sollevato. Ogni volta tengo Bolaņo sempre pių distante. Ora lo vedo molto chiaro: per Bolaņo, artista dell’anima nomade e affezionato della molteplicitā ( nel primo siamo uguali, nel secondo non tanto), l’uomo si trova al centro di tutti questi molteplici sistemi interrelazionati di cui ho parlato. E sospetto che, per lui, quest’uomo si eleva nel suo doloroso paradigma. (Di fatto, I detective selvaggi č un intelligente allegoria del destino umano). Credo che l’artista della molteplicitā qual č Bolaņo sa che l’unica cosa che puō fare l’individuo č assimilare il caos che lo avvolge e che riflette nella sua propria naturalezza, consiste nell’aprire bene gli occhi e cercare di registrare tutto cercando poi di dargli un ordine.

Perō č chiaro che una scoperta conduce ad un altra e che siamo di fronte a quella magra che dipingeva una grassa che a sua volta dipingeva una magra che dipingeva una grassa che dipingeva una magra, e cosė all’infinito, parola che di sicuro conosce molto Bolaņo, il quale sa che l’infinito e’ reale, tanto reale come infiniti sono i rumori dei vicini.

Ed ora qualcosa riguardo i rumori dei vicini: un testo del giā citato Carlo Emilio Gadda č dedicato alla tecnologia della costruzione, che a partire dall’adozione del cemento armato e dei mattoni traforati ormai non ripara le case dal calore e dai rumori. Gadda si estende in questo testo in una forma che rivela in lui un qualcosa di maniacale: si dedica a fare una minuziosa descrizione grottesca della sua vita in un edificio moderno e della sua ossessione nei confronti di tutti i rumori dei vicini che arrivano alle sue orecchie.

Ne I detective selvaggi le molteplici voci o rumori dei “vicini” delle storie di Arturo Belano e Ulises Lima sembrano inesauribili.

Di fatto, questo romanzo ha una struttura che tende all’infinito, a qualcosa di tanto infinito come l’intento di Gadda di riprodurre tutti i rumori dei suoi vicini di casa. Inoltre, qualunque sia la storia che gli stessi testimoni raccontano, il discorso continuamente si allarga e si allarga per abbracciare orizzonti ogni volta sempre pių vasti, e se potesse continuare a svilupparsi in tutte le direzioni arriverebbe ad abbracciare l’universo intero.

Nel Bolaņo de I detective selvaggi c’č una sorta di disperazione maniaca. Scrivo questo e mi domando se in realtā il disperato maniaco non sarō io. Volevo parlare con la massima agilitā della stravaganza e dell’effervescente magma linguistico del romanzo di Bolaņo per poi poter passare rapidamente alla terza parte interessante di questo libro – quella della struttura originalissima – e ora mi rendo conto che ho giā riempito cinque fogli e che il disperato maniaco sono io, che scrivendo di Bolaņo e mi sono convertito in uno scrittore della sezione calviniana della molteplicitā.

Cosė vanno le cose. Mi sono di nuovo avvicinato a Bolaņo. Credevo di essermi allontanato un po’ da lui, perō torno ad essere molto vicino. Dramma. Quando ho iniziato a scrivere le prime righe di questo commento sul libro di Bolaņo mi ero proposto di essere agile, seguire la scia di quello che ha sempre perseguito Leopardi – mi riferisco al suo desiderio di togliere al linguaggio il suo peso fino a che non somigliasse alla luce lunare – e tuttavia eccomi qui convertito in un uomo che č rimasto aggrovigliato nel mondo della molteplicitā di Bolaņo, questo scrittore che vede il mondo come un labirinto,una matassa, un groviglio.

Dramma. Nel volermi allontanare da Bolaņo ho finito per avvicinarmi ancora di pių a lui. Mi rimane l’ultima opportunitā o tentativo per districarmi dal groviglio delle mie divagazioni su I detective selvaggi: commentare velocemente l’originale struttura del libro. Vediamo. Un intrigo leggero – l’unica elemento lieve del libro: le investigazioni di Ulises Lima e Arturo Belano su una scrittrice scomparsa da tempo nel deserto messicano del Sonora – serve da sfondo o da pretesto per presentare la storia, lungo un periodo di 20 anni, di una serie di poeti messicani dell’avanguardia. Il diario di uno di loro apre e chiude il libro. L’ingenuo diarista ha una voce con echi del protagonista di La aventura de un fotografo en La Plata di Bioy ioy Casares (uno degli autori pių familiari al mondo letterario di Bolaņo).

In questo diario che apre e chiude il libro – che č in definitiva, secondo quello che dice il testo, “un storia di poeti perduti e di riviste perdute e di opere sulla cui esitenza nessuno sapeva una parola” [p.317] -, la storia di una generazione – la mia e quella di Bolaņo e che, per nominarla in qualche modo, potremmo chiamarla “la generazione di maggio del 68″ -, una generazione disastrosa – come molto bene lui ed io sappiamo -, un generazione deplorevole che ha lasciato coloro che le sono sopravvissuti – ci ha lasciato – ” tutti confusi nello stesso fallimento” e che conserva tuttavia una certa dose di umore e malinconia, il che non cessa di essere un disastro aggiunto al disastro generale…. Infine, tra questo diario, che apre e chiude il libro, ritroviamo con 400 pagine – quasi tutto il libro dunque – dove il lettore trova rifugio – lo dirō con le parole del critico Ignacio Echevarria:

….dove tutte le voci, tutte le parole, tutto il tempo trascorso durante la parte intermedia ha il valore esatto di un istante di luciditā, di una piega(il corsivo č il mio) aperta rapidamente perché tutti i personaggi possano essere contemplati nella loro comune umanitā, e possa dedursi cosė, l’assurdo tragicomico delle loro vite; non la constatazione – scrive Bolaņo – della nostra oziosa colpevolezza, bensi’ il segno della nostra miracolosa e inutile innocenza.
Questa piega potrebbe ben essere anche una crepa, una breccia. Il tema de I detective selvaggi ben potrebbe essere una breccia, il mondo infernale di una generazione lacerata, bocca di ombra sibillina dalla quale parla l’inferno. Questa breccia me ne ricorda una che appare in uno dei miei libri preferiti, il romanzo d’avanguardia Pietroburgo, di Andrei Bely, uno dei quattro migliori del secolo secondo Nabokov. In essa leggiamo:

“Assente, insensibile, privato ad un tratto della gravitā, della stessa percezione del corpo, egli alzō lo spazio delle sue pupille (al tatto non poteva dire positivamente di avere alzati gli occhi, perchč aveva perduto il senso della corporeitā) in direzione del posto del sincėpite, e vide che il sincėpite non c’era pių: lā dove il cervello č serrato da ossa pesanti, dove lo sguardo non puō giungere, – lā Apollon Apollonovic vide in Apollon Apollonovic solo una breccia rotonda (al posto del sincėpite); una breccia come un cerchio turchino; nel momento fatale [ in cui, stando ai suoi calcoli, il Mongolo (impresso nella coscienza, ma ormai invisibile) gli si accostō di soppiatto] qualcosa cominciō, con un rugghio simile a quello del vento nel camino, a estrarre rapidamente la sua coscienza per la breccia turchina del sincėpite verso l’infinitā.”
La crepa – tema e blocco centrale de I detective selvaggi – č un congiunto di quattrocento colpi o quattrocento pagine con una quasi infinita partecipazione di molteplici voci che commentano gli indizi delle impronte dei due detective selvaggi e nello stesso tempo commentano come la catastrofe si č instaurata nel centro di gravitā della storia di una generazione stravagante. I detective selvaggi – visto cosė – ben potrebbe essere il cerchio turchino di un sincėpite tragico, la storia comica di una breccia: un romanzo che ben potrebbe essere – li dove lo vedete – una fessura, una frattura molto importante per ciō che fin ora ha fatto una generazione di romanzieri: un archiviazione storica e geniale di Rayuela di Cortāzar e di cui I detective selvaggi potrebbe essere il suo contrario, nel pių ampio senso della parola.

I detective selvaggi – visto cosė – sarebbe una faglia che apre brecce da dove potranno transitare le nuove correnti letterarie del prossimo millennio. I detective selvaggi e’ d’altra parte, la mia stessa breccia; č un romanzo che mi ha obbligato a rivedere alcuni aspetti della mia narrativa. Ed č anche un romanzo che mi ha dato il coraggio per continuare a scrivere, e per recuperare il meglio che c’era di me stesso quando ho cominciato a scrivere.

Dire questo mi ha portato a sentirmi improvvisamente pių vicino che mai a Bolaņo. Sarā prudente che torni ad allontanarmi un po’ da lui. Mi avvicino, mi allontano, mi sembra di essere in un circolo infernale nel deserto del Sonora quando ecco che mi viene in aiuto un verso di Goethe, finestra che un personaggio del romanzo di Bolaņo, Jordi Llovet, mi ha insegnato ieri a pronunciare in corretto tedesco: Alles Nahe werde fern. Ovvero, “tutto ciō che č vicino si allontana”.nota Goethe lo scrisse riferendosi al tramonto del pomeriggio.

“tutto ciō che č vicino si allontana”, č la veritā, devo pensare che č la veritā. Di nuovo, respiro sollevato. Goethe mi ha permesso di tornare ad allontanarmi un po’ da Bolaņo. Solo cosė, peraltro, la mia generazione disastrosa, nel suo crepuscolo oggi affondata, potrā tornare a risorgere. E perché non pensare che I detective selvaggi ha qualcosa della letteratura che verrā? Con questa domanda finisco queste righe su Bolaņo.

La veritā č che la domanda l’ho formulata per il mio stesso bene, l’ho formulata per amare ed odiare al tempo stesso il suo romanzo; l’ho formulata per avvicinarmi il pių possibile al mondo di Bolaņo e cosė una volta per tutte potermi allontanare e farlo se possibile nel crepuscolo di questo stesso pomeriggio dove ora per me tutto ciō che č vicino si sta allontanando, e quelle che sono state alcune parole sul mondo romanzesco di Bolaņo ora non sono pių che il cercio turchino del mio sincėpite tragico tragico, anche il sincėpite di Arturo Belano (con le stesse lettere di Belano si potrebbe scrivere la parola nobela [che in spagnolo allude a novela] ), personaggio che, allo stesso modo di tanti altri ne I detective selvaggi, cammina all’indietro, “di spalle, guardando un punto nero ma allontanandosene, in linea retta verso l’ignoto” [pag 20] . Forse verso un infinito limitato, la dove ciō che č vicino si allontana per poi tornare ad avvicinarsi. Infine, e’ ora che Vado via da Bolaņo, perō resto, perō me ne vado, perō resto. Infine questo tipo di relazione letteraria tra Bolaņo e me sembra aver sancito per noi e per sempre un destino comune.

Bisognerā sfidare questo destino quanto prima. L’esperienza dice che non ci sono due cammini uguali. Scelgo di dire una frase che Bolaņo non potrā mai dire, č il mio disperato modo di catturare all’ultimo momento la ricerca di un destino differente al suo. Scrivo questo: “Il tuo scetticismo, Bolaņo, č l’inizio della fede”. e questa volta me ne vado sul serio. Lontano resta il passato, tutto sta per arrivare, dietro per sempre sono rimasti i nostri destini gemelli. In quanto ai presagi, giā diceva Wilde che semplicemente non esistono. Il destino non manda araldi. Č troppo saggio o crudele per farlo. Per questo ora me ne vado. Perō resto.

NOTE

Enrique Vila-Matas ( pagina ufficiale dello scrittore ) e uno dei pių importanti scrittori spagnoli; fu grande amico di Bolaņo di cui ammirava il rigore con cui praticava il mestiere di scrivere senza mai scendere a compromessi. di Lui scrisse in un articolo poco dopo la la sua morte:

“Viveva la vita in una forma tale che ci insegnava a scrivere, come se ci stesse dicendo che non bisogna mai perdere di vista che vivere e scrivere non ammettono scherzi, nonostante si possa sorridere. Sorrido in modo infinitamente serio quando ricordo che negli ultimi tempi molti dei testi pronti per essere spediti per posta per essere pubblicati, venivano sottoposti, forse per un eccesso di zelo da parte mia, a una revisione dell’ultima ora, provocata dai miei improvvisi sospetti che forse Bolaņo li avrebbe visti e li avrebbe lette. Grazie a ciō, grazie al fatto che avevo l’impressione che Bolaņo leggeva tutto, cominciai a vivere in uno stato di costante esigenza letteraria, poichč lui mi aveva collocato in alto e io non volevo deluderlo, per esempio, con qualche testo frettoloso, con uno di quei testi dove uno, per mille motivi differente, non arde a sufficienza, o , che e’ l ostesso, non mette tutta la carne al fuoco (…)
Con la morte di Bolaņo, a parte la mia pena di amico e la rabbia per la conversazione letteraria interrotta per sempre, io sono rimasto in una situazione di allerta davanti a uno dei problemi che Bolaņo “nell’assenza” (e no nella distanza) mi pone: un certo panico di fronte all’eventualitā che nel momento pių impensabile la sua non presenza possa condurmi a un certo rilassamento nella scrittura, anche se a questo problema credo di trovare un rimedio: cercare di ardere (nei miei scritti) come ardeva lui, perche’ in nessun altro modo le tenebre potranno diventare un giorno chiarore. Cosė vivo ora: facendo in modo che questa assenza non mi riconduca in uno stato di minore attenzione davanti ai pericoli che minacciano l oscrittore serio. Cosė vivo ora. Cosciente, per il resto, che debbo continuare a vivere, per esempio, per continuare a scrivere esigendo il massimo (…) o, semplicemente, per poter dire che mi ha commosso, ieri, trovare per caso la lettera di Bolaņo con la confessione che, davanti alla cina distrutta di Perec, aveva pianto”
Enrique Vila_Matas, un plato fuerte de la China destruida
Enrique Vila-Matas – pubblicazioni

alan pauls Bartleby e compagnia
2009, Feltrinelli
2666 vol 1 Dalla cittā nervosa
2008, Voland 2666 vol 1Dottor Pasavento
2008, Feltrinelli 2666 vol 1viaggiatore pių lento
2007, Alet
alan pauls Il viaggio verticale
2006, Voland
2666 vol 1 Il mal di Montano
2005, Feltrinelli 2666 vol 1L’assassina letterata
2004, Voland 2666 vol 1Suicidi esemplari
2004, Nottetempo
alan pauls Storia abbreviata della letteratura portatile
1989, Sellerio torna su
in realtā la frase di Goethe č citata da Jorge Luis Boerges nel libro “Sette notti”:

“Uno scrittore, o meglio ogni uomo, deve pensare che tutto ciō che gli capita č un mezzo; tutte le cose gli sono state date per uno scopo, e ciō č pių forte nel caso di un artista. Tutto ciō che gli capita, comprese le umiliazioni, le vergogne, le sventure, tutto questo gli č stato dato come argilla, come materiale per la sua arte; deve servirsene. Per questo in una poesia ho parlato dell’antico nutrimento degli eroi: l’umiliazione, l’infelicitā, la discordia. Queste cose ci sono state date perché le trasformiamo, perché dalle misere circostanze traiamo cose eterne o che aspirino a esserlo. Se il cieco pensa in questo modo, č salvo. La cecitā č un dono. Ora vi ho stancato con i doni che mi ha dato: mi ha dato l’anglosassone, mi ha dato in parte lo scandinavo, mi ha dato la conoscenza di una letteratura medioevale che avrei ignorato, mi ha dato il fatto di aver scritto diversi libri, buoni o cattivi, ma che giustificano il momento in cui furono scritti. Inoltre il cieco si sente circondato dall’affetto di tutti. La gente č sempre molto disponibile verso un cieco. Voglio concludere con un verso di Goethe. Il mio tedesco č carente, ma credo di poter riferire senza troppi errori queste parole: “Alles Nahe werde fern”, tutto ciō che č vicino si allontana. Goethe lo scrisse riferendosi al crepuscolo della sera. Tutto ciō che č vicino si allontana, č vero. Sul far della sera, le cose pių vicine si allontanano dai nostri occhi, cosė come il mondo visibile si č allontanato dai miei, forse definitivamente. Goethe potč riferirsi non solo al crepuscolo ma anche alla vita. Tutte le cose ci lasciano. La vecchiaia deve essere la suprema solitudine, anche se la suprema solitudine č la morte. “ Tutto ciō che č vicino si allontana” si riferisce anche al lento processo della cecitā, del quale ho desiderato parlarvi questa sera volendo mostrare che non č una totale sventura. Che deve essere uno strumento in pių tra gli altri, tanto singolari, che il destino o il caso ci offrono.” [J-L-Borges]torna su