Varie su Bolano

Jaime Quezada

Bolaño prima di Bolaño (1/4)

1. Introduzione

Il libro di jaime quezada, Bolaño antes Bolaño Jaime Quezada, poeta e saggista cileno, presidente della Fondazione Premio Nobel Gabriela Mistral, fu un testimone privilegiato del Messico e della vita in Messico di Bolano negli anni 1971 e 1972. Arrivò in Messico nel 1971 all’età di 27 anni e visse nella capitale alloggiando nella casa di León Bolaño y Victoria Ávalos genitori dello scrittore cileno.
“Avevo intenzione di restare solo qualche mese, ma prolungai la mia permanenza grazie al calore e all’ospitalità dei genitori di Roberto, che a 17 e 18 anni viveva in calusura, dentro casa. La sua adolescenza e gioventù le trascorse leggendo, rinchiuso in se stesso” , racconta Quezada che nel 2007 ha pubblicato, Bolaño antes Bolaño
“E’ un diario personale, con memorie, ricordi, note personalissime, ma sempre incentrate su un giovane personaggio Roberto Bolaño, quando nemmeno lontanamente si avvicinava allo scrittore che sarebbe diventato. Anche se sin dal primo giorno mi resi conto di essere in presenza di un talento molto speciale e cioò viene fuori dalle numerose lettere che vengono citate nel libro, dove parlo di questa giovane promessa ad amici e familiari” afferma Quezada in una intervista, e continua.
….l’unico grande amico che ebbe a quell’epoca fui io. Comincia a tirarlo fuori dalla sua clausura. Gli tolsi la paura della starda. Lo portavo dappertutto. “accompagnami a visitare Octavio Paz”, gli dicevo. Ebbi una grand epazienza per sopportarlo, come lui ebbe grande pazienza per sopportare me. Aveva un caratere irascibile e complicato. Non fu facile convivere con lui, però con il tempo cominciammo a volerci bene. Lui vedeva in me un appoggio, una sorta di fratello maggiore….
La Revista Lecturas ha pubblicato sul sito web un ampio estratto del libro qui riprodotto

Il tale Bolaño attraversò – e da solo attraversò – tutte le frontiere dei modi e delle mode del mestiere di scrittore che fin da giovanissimo si propose e impose. Conosco il caso Bolaño – perchè è un caso – dalle sue origini. In qualche halagadora modo, mi sono avvicinato precocemente al drammaturgo, al poeta, al narratore che fu Bolaño. Ma, soprattutto, al giovane-ragazzo Roberto Bolaño Ávalos in crescita continua.

Ho vissuto quasi due anni (1971-1972) a casa sua, vale a dire, la casa dei suoi genitori, a Città del Messico, calle Samuel 27, una viuzza del quartiere Colonia Guadalupe Tepeyac, molto vicino a “la Villa”, il cuore religioso guadalupano. Allora lui era una ragazzo di 18, 19 anni, che era arrivato In Messico molto piccolo, e con i suoi genitori, dal Cile, vari anni prima del Golpe militare del ’73, e che ora abbandonava la scuola secondaria , che se ne stava giorno e notte leggendo e rileggendo ( da Kafka a Eliot, da Proust a Joyce, da Borges a Paz, da Cortázar a García Márquez), fumando e fumando, e bevendo tazzone di te con latte, e sempre arrabbiato contro se stesso o contro qualcun altro (che magari ero io) o contro il mondo, di una rabbia che non si accordava con il suo pallidissimo volto imberbe o il suo sguardo attento di intellettuale precoce.

Un Gaspar Hauser questo Roberto (a immagine e somiglianza del protagonista del romanzo di Jacob Wassermann), che non usciva dalla sua stanza-soggiorno-sala da pranzo se non per andare al bagno o commentare a voce alta, mentre si stirava i capelli della sua ampia capigliatura, qualche passaggio del libro che stava leggendo. O per accompagnarmi – lui, un paziente e impaziente lettore – al bar dell’angolo, mentre io mi bevevo una birra Superior e lui, un succo di guayaba. O uscire con me nel vivere quotidiano e plurale di un Messico rivelatore di storia e di vita oltre Un domingo en la Alameda, il vivissimo e illuminante murale di Diego Rivera.

Io allora scrivevo (i giovedì) articoli di politica internazionale (in particolare il processo cileno del Governo del presidente Allende) nel quotidiano El Universal e, inoltre (le domeniche), articoli letterari per la Revista Mexicana de Cultura, supplemento domenicale del quotidiano El Nacional. Il buon Juan Rejano (uno spagnolo repubblicano esiliato in Messico e amico di Neruda) mi aveva aperto generosamente le porte del periodico invitandomi a collaborare con le pagine anzidette. E collaborai durante la mia permanenza in Messico.

Il premio Nobel a Pablo Neruda (1971) mi sorprese in Messico ed ebbi allora materia e lettura per vari mesi. E Roberto si entusiamò nel vedermi battere a macchina tutte le mattine nell’unica macchina da scrivere – una Royal portátile – che si trovava a casa sua. E, allora, stabilimmo un orario. La mattina usavo io la piccola macchina da scrivere e il pomeriggio la usava lui.

“Ho voglia di scrivere un’opera di teatro”, mi disse un giorno.. E la scrisse in meno di tre settimane. Un’opera più gestuale che testuale, più mimica che parlata. Con un solo personaggio, un personaggio monologante che si burlava di Carroll, di kafka, di Joyce. E già stava leggendo e commentando Joyce – Ritratto dell’artista da giovane -. ( “devo leggermi l’ Ulisse”, ripeteva spesso). La piccola opera la inviò ad un concorso letterario di La Habana, io stesso lo accompagnai all’ambasciata di Cuba. Non successe niente. Ma in quel testo c’era il riassunto tacito della sua futura scrittura. “El divino botón”, direbbe Cortázar. Come lamento oggi, di non aver conservato quel pezzo! forse l’unico tentativo di drammaturgia nell’opera di Bolaño.

E dopo, verso la fine del 1972, io tornai in Cile…E Bolaño continuò nel suo Messico del “La regione più trasparenteBolano legge il libro di Fuentes”scrivendo, ora, poesie e racconti e capitoli che sarebbero divenuti in seguito temi per i suoi romanzi, E continuò una relazione di avvicinamento e di amicizia (o di coincidenze temperamentali) con quegli amici poeti e scrittori che io avevo conosciuto nel Messico dei miei tempi e della mia ressidenza. e da lì, da quel Messico – dicendo addio ai suoi genitori, se davvero disse loro addio -, a Barcellona, sempre solo, a guadagnarsi la vita e la letteratura. E se la guadagnò.

E con una narrativa alla ricerca di un linguaggio, ormai non più unico, ma multiplo. Facendo in tal modo sua la frase di Margo Glanz:

La letteratura può servire come strumento per apprendere a dis-leggere un mondo o come strumento verbale per ordinarlo. La preoccupazione di scrivere bene ha ora un’opposizione: quella di coloro che non credono più nei cerimoniali letterari.

Sin da subito, allora, io sapevo di essere in presenza di uno scrittore fuori dal comune, di un talento nato, di un intellettuale impúribus. Ebbi per lui ammirazione e apprezzamento e fede fin dall’inizio, malgrado le nostre sempre contradditorie relazioni di amicizia e di letteratura. Nonostante ciò, molto affetto e tenerezza circondò sempre questa mutua relazione di amicizia. Mi rispettava, senza dubbio, come un fratello, un compagno, un amico.

La distanza dal Cile e la sua lucidità di sismografo gli permisero di essere l’irriverente e l’iconoclasta che fu con la gente e la letteratura del suo paese natale, e di altre letterature e latitudini. Non molti si salvarono dalla ghigliottina verbale o scritta, dal gesto iracondo o ironico di Bolaño. Non si salvò nemmeno la realtà o irrealtà del Cile post golpe militare. Aveva le sue ragioni l’uomo. Anche se Bolaño non visse in situ la società cilena, molti antecedenti e dati, che in seguito sarebbero stati temi per i suoi romanzi e invenzioni creative, gli arrivavano indirettamente o da informazioni a volte disinformate. Infine ora: uno spezzare le lance e un bruciare di incensi a suo favore.
Nell’agosto-settembre del 1973, alcune settimane prima del Golpe militare, arrivò in Cile dal Messico seguendo la stessa rotta che io avevo fatto in senso inverso (Santiago-México) un paio di anni prima. Quella mattina dell’11 settembre, e in quel Santiago del Cile, mi tornò in mente all’improvviso, e in tutta la sua drammaticità e intensità, il sogno premonitoreche Roberto mi aveva raccontato mesi prima nel messico della sua/mia residenza: “nel cielo c’era una spada blu. Una grande spada blu che sorvolava le tegole marroni e rosse di Quilpué”

Solo che ora, Quilpué era tutto il Cile. E solo quel mattino interpretai in tutta la sua dimensione quel sogno di tanta vertiginosa spada.

Qui, a santiago, Restò a casa mia (Comuna de La Cisterna) in quei drammatici e selvaggi giorni, fino a che potè tornare di nuovo nel Messico di quella pienezza di vita di strada, di quei primi anni del decennio dei ’60. E quando Roberto Bolaño era lontano – la stella ditante – dall’essere il narratore a tutto tondo che sarebbe diventato ventitre anni dopo. Ma era già il talentuoso ragazzo disincantato e incantato con la letteratura: Bolaño prima di Bolaño.

In quel Messico pieno di vita del ’71, del ’72, e con l’emotività sempre viva di un Cile molto attuale e molto presente, e negli accadimenti e circostanze del contingente-urbano, si scrissero queste pagine verosimili e per niente inventate. Varia materia nelle sue intimità e pluralità; note, frasi, appunti, riflessioni, interviste, conversazioni, lettere, motivi, dialoghi, discorsi, articoli di stampa, e, infine, testi che furono scritti nella stessa casa familiare di Bolaño, nello stesso tavolo, nella stessa macchina Royal, nello stesso tempo messicano che ho vissuto, che abbiamo vissuto.

Materia tutta, che da origine a questo libro-testimonianza molto personale nella sua pluralità di tempo, memoria, epoca. O questo mio diario con le mie e le sue annotazioni di viaggio ed erranza. O a questo quaderno di vita-vita, che, in definitiva questo è, vivere e dis-vivere addosso una vita come se fosse un libro, e viceversa, Omaggio fraterno, ed anche letterario, a un Roberto Bolaño che conobbi nella sua adolescenza (prima della sua crescita), e continuo a conoscere con ammirazione malgrado la sua inquietante frase piena di sfida:

Al centro del testo c’è la lepre

2. Messico 1971 – 1972

Canzone per rompere la pignatta. [ cfr gioco della pignatta ]
Compleanno di Roberto Bolaño. María Victoria, sua madre, arriva nel pomeriggio con una vistosa pignatta per celebrare i 18 anni dell’amato e debosciato figlio. Non c’è compleanno senza pignatta, si dice in Messico. E senza casini, canti, suoni di tamburi. Una tradizione di festa, un gioco ludico, un augurare fortuna, rallegramenti felicità al festeggiato. E non solo al bambino, anche al bambino uomo. Piccoli e grandi in un rito-festa-compleanno di saluti allegri. Tutta una fantasia popolare, di fiera, di festa, di tradizione che si prolunga e riappare.

Nel piccolo patio di casa e da un ramo di un albero di frassino, la pignatta pende con tutti i suoi colori luccicanti. Ha l’immagine e la somiglianza di una testa olmeca, fatta tutta di carton-gesso e rivestita di disegni serpentini e fasce colorate di carta. Bello e attraente pezzo di arigianato, piuttosto. Testa olmeca che fu pietra-scultura millenaria, destinata ora ad essere distrutta a colpi di bastone dal festeggiato di comleanno

Dale, dale, dale,
no pierdas el tino,
mide la distancia
que hay en el camino.
E Roberto è lì, paziente, con la vista bendata, in mezzo all’arena e al casino, cercando di colpire a bastonate l’ambita pignatta. bastonate da cieco, senza dubbio, o bastonate a vuoto, perchè la pignatta sale e scende legata alla sua corda senza che Roberto possa fare centro con certezza. Un gioco-giocattolo prodigioso e contagioso. C’eè qui una danza un movimento un ritmo: un uomo giovane, ancora adolescente, che cerca di prendere la pignatta con la punta del bastone. E un sole di carta sul punto di cadere. mentre il canto va e viene, una e un’altra volta:

Dale, dale, dale,
dale y no le dio,
pónganme la venda
porque sigo yo.
E il canto continua fino a che non esplode la pignatta, in una pioggia di sorprese e regali per il giubilo e la felicità di Roberto. E, naturalmente, di tutti noi, suoi allegri festeggianti.

* * *

Il trapiantato o la messicanità di Bolaño.
Roberto – e a una mia domanda – mi racconta, a briglia sciolta e alla sua maniera, la sua esperienza di vedere, sentire e vivere una nuova realtà del paese o della messicanità, essendo egli giunto tanto giovane o ragazzo in Messico [all’età di 15 anni, NTA]:

Il salto dal Cile al Messico mi ha lasciato quasi indifferente. In Cile non presi mai coscienza del paese che abitavo. E como potevo prenderla se ero ancora uno scolaretto sfigato e andavo al liceo quasi di malavoglia. Non fui un buon alunno in quel liceo di Los Ángeles, li dove tu stesso hai studiato, ma tu lasciasti un’impronta, eri uno scolaro disciplinato, i professori ti additavano sempre ad esempio. Io non andavo oltre il sei, sei e mezzo, voto quasi brutto, e nello spagnolo!, figurati. Mi salvavo annaspando, giusto per passare l’anno.
per non dire della storia, la geografia, le matematiche. Mi annoiava tutto. La mia povera madre passava quasi tutte le settimane a giustificare le mie inadempienze. Di modo che, persi la coscienza di quel Cile. O non l’ebbi mai. Non l’appresi.
E sono caduto qui con i miei genitori erranti, vagabondi e tenaci, in questo Messico, paese del quale non sapevo niente, assolutamente niente. Che potevo sapere! salvo, naturalmente, i film di Cantifias o di Chaquita o di Pedro Infante, che facevano ridere o piangere alla mia signora madre, la matinée delle domeniche al cinema Imperio, di Los Angeles. E ora comincio a sapere qualcosa della sua gente, della sua storia, della sua letteratura, delle cose più curiose in un paese di curiosità, sorprese e misteri piuttosto ancestrali. E qualcosa che ti può meravigliare o sorprendere: del Messico ho appreso di più vedendo la televisione che visitando biblioteche e musei. Mi vergogno a dirti ciò, però che diavolo! La televisione ti mostra tutto, da un nostalgico desfile zapatista nella piazza di Zocalo a una rissa con tavoli, sedie e pistole nella cantina della Colonia Guerrero
Per me questo Messico è uno spettacolo, di assoluta novità, anche se non sono mai andato a Xochimilco nella Villa de Guadalupe, sono allergico al folklore, non ho la mentalità di Kodak, a quello che tu chiami quelm passato meraviglioso del Messico con le sue cassette colorate di Uruapan e le sue portentose culture precolombine. Questa visone dei vinti , non mi entusiasma, io che non ho niente nè avro niente dello storico. Al contrario, io mi diverto molto con questi programmi dal vivo della televisione, con i suoi drammi, le sue porras, i suoi pianti, Sono le mie migliori lezioni di una messicanità, come la chiamano e di cui parlano qui i più intellettuali.
In più, c’è un libro, un romanzo, che mi è servito molto: La regione più trasparente, di Carlos Fuentes. Leggendola entro, pagina dopo pagina nei personaggi e storie reali o fittizie di questo Messico. Carlos Fuentes è per me – il povero lettore che sono io – non solo un romanziere, ma un narratore di storie vive o reinventate intorno a un Messico con tanta storia reale o inventata.
Il mio primo passo di avvicinamento al Messico di oggi è avvenuto leggendo quel libro. Parlarono un giorno di questo libro alla televisione, con un’intervista allo stesso Fuentes. La definivano come una biografia di Città del Messico, una sintesi del presente messicano, un paese dove c’è aria, sangue, sole, un tumulto senza nome. E, infine, frasi che mi colpirono favorevolmente. Mi aprirono la mia testolina o testona. Mi ha affascinato questo programma e quello che diceva nell’intervista l’autore del programma. Lui, molto elegante, che stava lì, nello schermo.
Il giorno dopo dissi a mia madre, un po’ per scherzo, un po’ sul serio: mamma, pensa che sto diventando messicano. Comprami il romanzo di Carlos Fuentes, voglio trovare quello che questi messicani chiamano la messicanità…la mia signora madre rise molto, ma mi diede retta e mi portò il romanzo. E, bene, mi imbattei – non poteva esere altrimenti! – in un romanzo che lessi senza interruzione, per quanto ero preso dalle sue pagine. Cominciai a conoscere la faccia vera o fittizia del Messico, dove tutto passa e tutto resta: il labirintico e il redentorio vivo.

E allora perchè dovrei muovermi da queste quattro pareti di questa casa, nessuno mi molesta e io non molesto nessuno, se non me stesso, e forse ora, te. Insomma faccio mio il grido di battaglia di uno dei personaggi di questo romanzo: “Sii te stesso con tutte le conndizioni della tua vita”.
[ R.B. ]
* * *

A casa di Roberto Bolaño.
mi stupisce vedere la luce nella sala da pranzo. Sono le due e qualcosa del mattino; e come sempre arrivo a casa a notte inoltrata, dopo lunghe e gradite riunioni al Taller di poesia della UNAM che, naturalmente, finiscono al caffè La Habana o al Salon Palacio, o in unaltra cantina di via Bucarelli.
Roberto sta lì, in quella stanza con la luce della cucina, come sempre, seduto all’estremo del tavolo, mezzo nascosto dietro il fumo delle sue interminabili sigarette (a volte fumando Delicados, a volte Faritos) che accompagnano le ore delle sue lunghe e ininterrotte letture. E’ contento che arrivi, anche se questa allegria deve esser presa a titolo di inventario
“Ti ho aspettato tutta la notte”, mi dice, con il suo imperturbabile tono di affetto e disaffezione allo stesso tempo, un tratto usuale in Roberto. L’attesa ha un valido e risoluto motivo: farmi sapere che finalmente ha concluso la sua piece teatrale della quale stava parlando nelle ultime settimane. E ora vuole leggermi alcuni passaggi delle sue prove teatrali in casa; per sapere la mia opinione.
Ho sempre avuto pazienza con un sempre impaziente Roberto. E nonostante la mia testa reduce dalle ore piccole, vada per altri labirinti, sgombero la mente con un sorso di caffè per ascoltarlo con molta attenzione, anche se non sono molto esperto in monologhi o testi teatrali, e soprattutto ora che lo vedo così risolto e animato
Avvicino la sedia al tavolo della cucina, mi siedo al suo fianco, stiro la mano verso un vassoio di tortillas fredde, e lo ascolto attento.
Ascolta questo titolo, dice Roberto: Anche lui commette follie o, uno sguardo ipotetico”. E ripete tre o quattro volte quel titolo, come pensando e riflettendo sulla validità di quello stesso titolo. Chiede la mia opinione. Gli dico che mi sorprende ammirevolmente quel titolo, e che devo conoscere il testo. “Non c’è testo”, mi dice, “solo titolo”. Un’opera in bianco quindi, niente di niente, immaginaria… “Si, si, si. proprio questo, immaginaria”. Beckett, Ionesco?, gli domando. “Niente…, Bolaño!, Jaime”.
Me ne sto alcuni minuti a pensare a questo strano a apparentemente assurdo titolo. Che titolo!, dico borbottando alla mia maniera. Titolo per un romanzo o racconto, dico a voce alta. O per un saggio. Un titolo molto letterario, dico. Molto ideologico, aggiungo, come per uscire dal discorso o per mostrarmi interessato alle cose strampalate di questo per niente adolescente Bolaño.
maschera di Pátzcuaro “si tratta di un racconto”, mi dice. “Un racconto o azione teatrale per essere rappresentato nella pagina di un libro o in uno scenario: Un uomo che attravera nudo una stanza; un uomo che va e viene con un libro aperto in mano; un uomo sempre di profilo, mai di fronte. Dopo l’uomo si siede sul pavimento con la vista verso la parete e di spalle al pubblico. Una ragazza gli porta una tazza di caffè; la ragazza è vestita con un abito di tulle blu; la ragazza nasconde il volto con una maschera, di quelle maschere che usano qui nei festival di Pátzcuaro. L’uomo recita una poesia di Baudelaire, curiosamente una poesia angelica. la ragazza canta una canzone mixteca, curiosamente in inglese. Dei bambini passano giocando nella scena e dicendo indovinelli e scioglilingua. Uno di quei bambini è curiosamente Juan Rulfo che gioca con un gallo di legno….fin qui va la scena.
Adesso non so come uscire o entrare con questi personaggi dalla scena o dalla pagina. Sono a metà strada”.
Una cosa molto folle, gli dico. Strana, per i temi e le confusioni. Frammenti di personaggi che solo si mostranbo senza fare e dire niente. Che ha a che fare Baudelaire con una ragazza mixteca, che ha che fare Rulfo. tu, che non sei per niente rulfiano? E continuo: Un Godot in versione messicana, meglio, in versione Roberto Bolaño..
La storia di Godot, in apparenza, lo anima e Roberto, ride di se stesso, con un riso stemperato (come è suo costume o malcostume). E cade in un delirio di inquietudine. Io comincio a sospettare, a quest’ora della notte, che Roberto forse mi sta stuzzicando; il che non sarebbe strano nel suo affanno di mettermi ora in ridicolo; a me, suo improvvisato interlocutore. E soprattutto a sospettare che sia lo stesso Bolaño quell’uomo nudo mentre legge Baudelaire; che sia lo stesso Bolaño quella ragazza con la maschera di Pátzcuaro, che sia lo stesso Roberto uno di quei bambini che giocano con un gallo di legno; un Roberto che non ebbe infanzia nè giochi di infanzia, che crebbe di colpo, saltando la tappa del “divino botón”, per precipitare quasi all’improvviso nel ritratto dell’artista adolescente.
Se così non fosse, perchè quel titolo enigmatico? Él también comete locuras o una mirada hipotética?

* * *

Il sombrero pazzo.
Ricevuta la convocazione del concorso Casa de las Américas, vado con Roberto negli uffici culturali dell’ambasciata di Cuba nell’avenida del Paseo de la Reforma, a un paio di isolati di El Angel, l’alto monumento dorato della città. Roberto consegna la sua opera di teatro di un atto e un personaggio principale. Resto sorpreso quando il funzionario dell’Ambasciata gli chiede il titolo della sua opera. “Il sombrero pazzo” risponde molto risoluto e sicuro Roberto. Dico sorpreso, perchè Roberto non mi aveva detto niente di questo cambio del titolo della sua opera che io conoscevo nella versione iniziale, tra le altre follie e sguardi ipotetici. “Niente di strano”, mi dice Roberto. “Il titolo fa lo stesso. Ieri notte è venuto un topo e mi ha cambiato il titolo, allora gliene ho messo un altro, malgrado Carroll si arrabbi con me. E la mia piccola opera è anche una provocazione, scandalizzare la gente, fare cose devianti, esagerare (tocarle la oreja a la gente, escupir para el lado, irse de lengua), infine…, la colpa è anche del Jodorowsky, questa serie di topi che lui ha imposto qui in Messico molto provocatoriamente. Questi topi sono state le mie lezioni televisive permanenti”.
Rendendomi conto che Roberto ha le idee molto chiare,che lo pseudo letterato in definitiva sono io e che potremmo entrare nella terra di nessuno. lo invito al Café La Habana, lì da Álvaro Obregón, a celebrare la sua partecipazione al concorso letterario di Casa de las Américas. “Andiamo….ma non dire niente della storia del “Sombrero loco”… Va bene. gli dico.
Dopotutto mi sono via via abituato a un Roberto capace delle cose più inverosimili e insospettabili. Può tirare fuori gatti da un cilindro quando uno si aspetta lepri o colombe. Uno non sa mai quando se ne può venire con situazioni curiose e strane, e perfino ridicole e stravaganti. Quella del Sombrero pazzo è una delle tante, che diamine! che pazzi!.
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Una fotografía della prima Comunione.
Roberto ride a crepapelle quando gli racconto che io fui chierichetto nella Cappella delle Monache della Carità, a Los Angeles (Cile), la mia città natale (e anche la città quasi natale di Roberto), quando stavo per lasciare l’infanzia ed entrare nell’adolescenza. In quella risata come cascata d’acqua non benedetta di Roberto c’è, tuttavia, tutta la sua precoce miscredenza e irriverenza: “Da bambino mi liberai della mano di mia nonna nella Via Crucis di un Venerdì Santo”
Non fa attenzione alla religione o non gli importa. Anche se fece il suo catechismo e la sua Prima Comunione (in una parrocchia di Viña del Mar) quando aveva 10 anni, secondo una stampa commemorativa e una fotografia nell’album di famiglia. Roberto inginocchiato di fronte a un’immagine del Sacro Cuore di Gesù, un fiore di tuberosa nella sua mano destra, una cinta bianca con il suo nome in lettere dorate nella manica del suo vestito blu marino.
Non mi sarei immaginato a un Roberto, con volto pietoso di bambino, religiosamente concentrato più nella scena fotografica che nella presenza radiante del santo protettore.

* * *

Il maestro dixit.
Roberto mi accompagna alla prima delle sette lezioni e conferenze che il poeta e saggista Octavio Paz detta al Collegio de México, una delle istituzioni più prestigiose ed elitarie della vita intellettuale, accademica e culturale del paese. Essere alunno di Paz ed ascoltarlo parlare – il maestro dixit – per quasi due ore è una nobilissima esperienza per tutti quelli interessati ai suoi discorsi dialettici, all’oralità dei suoi saggi, al pensare e far pensare con arte e senso critico. E’ un privilegio per me che ho quest’unica possiilità di poter assistere ad ognuno dei suoi corsi.
Octavio parla del fenomeno poetico dal romanticismo fino ai nostri giorni e della fine di una modernatà, per assistere alla nascita di un’altra: “perchè è il tempo del selvaggio, il negro, il chicano, il pazzo, il bambino, l’innamorato, la donna, l’omosessuale, il perseguitato; il tempo dell’uomo torturato dalla macchina sociale”. Roberto, tuttavia, dopo un po’, si addormenta, appoggiando in continuazione la sua testa sulla mia spalla sinistra, mentre Paz continua a parlare con enfasi della ribellione e tradizione nella poesia moderna
Sono tentato di dargli un lieve colpo per per svegliarlo, ma dopo lo lascio nel suo mondo dei sogni a rischio che si metta a sbadigliare o russsare.
“Ho dormito per tutta la conferenza”, mi dirà dopo. “Gli applausi del pubblico mi hanno svegliato”.

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Un “18” a casa dei Bolaño-Ávalos.
18 di settembre in Messico! Come sto lontano dal suolo in cui sono nato! immensa nostalgia invade i miei pensieri, dice una canzone mixteca evocatrice, che ora faccio mia nel mio fervore e consolazione. La patria si ingrandisce nella distanza e lontananza. E senza cadere in drammi patriottici: un “18” è un “18”. forse una delle poche ricorrenze e tradizioni e festività che danno fisionomia e identità al Cile e all’autoctono sanguigno-cileno-anima.
L’anima nazionale viene a galla, allora, in casa dei Bolaño. Loro che sono da quattro, cinque anni qui. Per questo, ora il paese e l’anima del Cile sta in questa casa. Casa che unisce in un solo cuore di cilenità e sentimento patrio e animo celebrativo. La tavola aspetta, i bicchieri anche. Chi ci unisce in questo istante, chi ci chiama?
María Victoria prepara le Empanadas, cucina il tegame, da sapori con la salsa piccante e IL coriandolo. Roberto e Maria Salomé decorano con bandierine e ghirlande tricolori tutta la cucina-soggiorno e si rimproverano mutuamente per il condor e il cervo dell’araldica patria.
León Bolaño, a volte così indifferente però in fin dei conti il padrone di casa, sventola sulla finestra che da sul balcone della strada un’enorme bandiera cilena, tirata fuori da non so dove, ma che porta allo stadio Azteca quando la selezione di calcio del Cile visita il paese.
Ed io, per non essere da meno, preparo il ponche alla cilena, dei pezzi di pesca e un vino bianco Viña Undurraga comprato nelle cantine del DF.
lavorazione del cacho de buey Niente è stato lasciato al caso per questo pranzo del 18 settembre ( insieme anche ad amici cileni e messicani), persiono un pittoresco e pirografato “cacho de buey” – ricordo di un fischietto da richiamo – all’ora del brindisi nazionale. E come se fosse poco, León y María Victoria provano un “pie de cueca” guarda la cueca cilena mentre i quattro fratelli Silva suonano e cantano da un disco RCA.
Tra la civetteria di lei e la galanteria di lui, il nostro ballo nazionale fa il miracolo di unire questa coppia quotidianamente disunita. danza il vecchio gesto d’amore: frenesia e tenerezza, sfida e rispetto, fuoco e aria. armonia e unità. Vola il fazzoletto ricamato, allo strepitio di punta e tacco. Come se fossimo in una festa di Mulchén, facendo strada e spazio ai ballerini
Roberto, sorpreso ma entusiasmato per il ballo dei suoi genitori, si mette un sombrero da contadino – “me lo ha portato uno zio di Quilpué”, dice – e anima con le palme delle sue mani ogni giro dell’allegra coppia. María Salomé è pronta per offrire dolci “alfajor” in un elegante vassoio di Puebla. Ed io riempio dei bicchieri di ponche per celebrare i danzanti uniti, e brindare alla patria lontana però, qui, presente.

Aro aro aro
dijo doña Victoria Ávalos
cuando me siento me paro
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Premio Nobel di Literatura a Pablo Neruda.
21 di ottobre. 7 del mattino a Città del Messico. Circa mezzogiorno a Stoccolma. Una insistente chiamata telefónica mi sveglia molto presto. Mezzo addormentato rispondo alla chiamata. E’ il poeta messicano Juan Bañuelos (direttore del seminario di poesia della UNAM) che mi comunica, molto infervorato, che il poeta cileno Pablo Neruda ha vinto il premio Nobel della letteratura 1971.
La notizia mi sveglia gradevolmente. non posso crederlo, ma ci credo. E’ una festa per il Cile e per il Messico, gli rispondo, anch’io infervorato. L’accordo è di riunirsi al Café La Habana a mezzogiorno. Questo Nobel lo celebriamo con tequila, gli dico. E vino cileno, aggiunge Bañuelos. Così sarà gli prometto.
Corro nella stanza da letto di Roberto ( con il quale ero stato il giorno prima facendo scommesse su chi avrebbe vinto il premio: Roberto propendeva per Borges. Io per Neruda. Sveglia! sveglia Roberto! Queste sono le belle mattinate . E gli do la notizia. Roberto, addormentato (ogni notte sta sveglio, immerso nelle sue persistenti letture) non sembra ascoltarmi, e fa un gesto istintivo di fastidio: Neruda, premio Nobel! gli dico. Neruda!, insisto a voce alta cercando di comunicare ai 4 venti questa importante notizia. Ma lo stesso, non c’e’ risposta. valuto la pesantezza del suo sonno, e mi ritiro dalla sua camera, compatendo il suo sonno profondo.
Il telefono a casa dei Bolaño non smette di suonare. Le chiamate si succedono una dopo l’altra. I miei amici poeti messicani mi salutano come se il vincitore del Nobel fossi io stesso, anche se in qualche modo lo sono, poichè Neruda va più in là di Neruda, ed è il Cile intero (che è anche Neruda) e la poesia di quel Cile intero.
Chiama il poeta e saggista Jaime Labastida, il giornalista e poeta Orlando Guillén (quotidiano La Prensa), Julián Gómez, Juan Rejano (direttore de El Nacional), il poeta Marco Antonio Montes, il poeta Efraín Huerta, la poetessa Telma Nava, la poeta argentina Diana Bellessi, la poeta uruguaya Elcira Souf Sacaffo, il poeta peruano Carlos Henderson.. e la lista continua con il pittore cileno José de Rokha, che mi invita a un ricevimento all’ambasciata cilena per celebrare il “nostro compatriota”.
Le chiamate mi riempiono di orgoglio e di contentezza (io, un poeta cileno che ancora non arriva ai trenta) e, soprattitto, quella di Pepe de Rokha, che evitando perssonalismi familiari molto cileni, esprime la sua gioia, manifestando una pluralismo letterario e culturale degno dell’incarico che diplomaticamente rappresenta.
Io cado come in uno stato di delirio e allucinazione poetica e di fervore. E mentre passeggio intorno al tavolo della cucina parlando a voce alta con me stesso, immagino dei dialoghi con lo stesso Neruda, colui che lasciò la sua calligrafia e il suo linguaggio nei muri di questo Messico. Dice Neruda:

Messico, hai aperto le porte e le mani all’errante, al ferito, all’esiliato, all’eroe. Sento che ciò non possa dirsi in altra forma e voglio che si stampino le mie parole un’altra volta come baci nei tuoi muri…
E un’altra volta rispondo al telefono. E di fronte a tanti insistenti squilli di telefono, Roberto alla fine si sveglia, e come sonnambulo disorientato nella sua stanza, cerca di svegliarsi dal sonno prolungato. Mi domanda cosa c’è, che succede, ascoltandomi parlare e recitare a voce alta. Gli dico che sono immerso in dialoghi immaginari con Neruda. Gli dico del Premio Nobel. Che questa meravigliosa notizia è uscita al mattino. Roberto, e senza togliersi la sua camicia di notte, salta dal letto e mi da un un abbraccio spontaneo e diretto ( con un gesto di tenerezza e comprensione poco usuale in lui), celebrando la felice notizia,
Più che il nerudiano in se, da Roberto è venuto a galla, senza dubbio, l’impeto del cileno. Gli dico che bisogna preparare una poesia di neruda nel caso ci tocca leggere durante la giornata, nelle celebrazioni che si vanno programmando. Che io ho il mio Walking Around leggi la poesia di >Neruda già pronto, questa poesia di panni stesi, di mutande, di tovaglie, di camice che piangono lente lacrime sporche. E che era la poesia che mi stavo rileggendo a vcce alta, con l’odore dei barbieri che fa piangere e stridere o il lunedì che brucia come il petrolio.
Roberto cerca di ricordare qualche poesia di Neruda, ma lascia che il ricodare venga lentamente in suo aiuto. per distanze forse generazionali, Neruda non sembra essere oggetto di devozione, non lo commuove, non lo motiva. Nè i versi d’amore, e nemmeno quelli disperati. Non lo ha nemmeno letto molto. Finalmente, come chi fa una scoperta, balbetta dei versi:

Entonces entró la Guillermina
con dos dos ojos azules [ dos relámpagos azules]
que me atravesaron el pelo
y me clavaron como espadas
contra los muros del invierno.
[leggi la la poesia interafinestra]

Lo correggo dicendo che non sono dos ojos azules, ma dos relámpagos azules. Ah, dice Roberto, che importa se in Neruda è tutto estravagario [titolo di una raccolta] e stravagante”. Ed esplode in una risata di scoperta gioiosa.
Roberto con la sua Dónde estará la Guillermina?, io con la mia Walking Around a fior di labbra e di cuore, ce ne andiamo in taxi collettivo (che qui chiamano “pesero”), molto allegri e composti, al Café La Habana, al puro centro del DF. E a celebrare con i poeti messicani il cileno-messicano universale Pablo Neruda

* * *

Forte questo Roberto!
Al mio ritorno da Chapala, Roberto mi dice:

“Mentre tu andavi per i tuoi Jaliscos, io me ne sono andato di casella in casella per la Rayuela [Il gioco del mondo fi cortazar], che è il viaggio più ampio del mondo che ho fatto, dove sono arrivato a sognare la Maga, e ora vorrei solo fumare le Gauloises, e stare a Parigi, dove il mondo è molto sporco e bello a Parigi, e fare il cileno-messicano francesizzato e viaggiare in un treno se mi sta aspettando qualche amico, e ti manderò una cartolina di Baudelaire (anche se non mai letto Baudelaire) o di Rimbaud (che mi piacerebbe molto leggere). E anche se tutto ciò, jaime, sia una pura matafora, che importa!
Che forte questo Cortázar, come crea personaggi dagli esseri in carne e ossa quali sono: i Bioy Casares, i David Viñas, i Borges, i Verlaine, i Nerval, gli Artaud, i Keats, i Poe…, tutta la letteratura universale vissuta in una stessa sola casella di una Rayuela che bisogna saltare con una pietruzza! Pura metafora eh!
Mi rendo conto che la lettura del romanzo di Cortázarleggi recensione di rayuela è stata di grande ineteresse per Roberto (cosa che già immaginavo), e che è stata per lui – ed è anche per questo inetressante – come una catarsi miracolosa che ha migliorato visibilmente e sensibilmente il suo carattere. Curato dalla paura no. Arricchito di gioia per una letteratura specchio di se stesso.
D’ora in poi, – mi dice Roberto, mostrandomi una pagina di Rayuela, la mia orazione permanente sarà questa litania-salmo del Cortázar romanziere: Felices los que eligen, los que aceptan ser elegidos, los hermosos héroes, los hermosos santos, los escapistas perfectos”.
Veramente forte questo Roberto! Saltò con una pietruzza tutte le caselle di Rayuela: dalla terra al Cielo, e per tornare, e con la pietruzza, alla terra. pure metafore eh?

* * *

Grazie al Confabulario di Arreola
e a una dedica scritta di suo pugno, mi salvo dall’ira di Roberto che mi dice: “Perchè non mi hai portato? Perchè non mi hai invitato?”, all’incontro intervista con Juan José Arreola. Bene, gli dico, se con Paz ti addormenti sotto i miei occhi; e con Rulfo fai il provinciale; con Arreola, ho pensato, avresti fatto l’ozioso-vizioso intromesso lettore. “Però, dai!, Arreola è l’unico scrittore messicano che mi piacerebbe conoscere personalmente. E’ il Parra messicano, un antipoeta del racconto, un “antiraccontista”. nota* Lo vidi una volta alla televisione e mi è sembrato un personaggio fuori dal comune. Con una faccia da indemoniato e una melena revuelta da allucinato, puchas!, ma dalla sua testa uscivano idee, parole, detti, espressioni, puchas!, di una rara e luminosa follia”.
Buono, buono, non dire altro, hai ragione, gli dico. Arreola è un provocatore, un incitatore, un animatore di scrittori giovani, e non giovani. Per la verità un pazzo intellettuale geniale, di quegli intellettuali che hanno mestiere. E per scusarmi di non averlo invitato, gli dico: Ecco, Roberto, il suo Confabulario, il suo libro principale è tuo, puoi tenertelo.
E gli ripeto in buona fede: Il libro è per te, la dedica per me.

* * *

Una canzone rock.

Roberto viene correndo dalla cucina (dove stava preparandosi una tazza di latte caldo) alza a tutto volume la telefunken. A tutta forza, viene trasmessa una canzone rock dei The Who da un programma radio
La stridente canzone inonda tutta la casa, e deslumbra Roberto che segue il ritmo con i piedi e i movimenti della testa, tarareándola fino alla fine del programma. Allora mi dice: “Conosci il testo di questa canzone dei Who? uau!, una poesia o un racconto di meraviglia questo testo” . [testo Pictures of Lilyil testo della canzone
Gli dico che non sapevo nemmeno di questo gruppo rock, e tantomeno delle loro singolari canzoni. Tra questa musica elettronica – il ruggito degli Animals, dei Doors, dei Mother of invention – non vado oltre i Beatles o i Rolling stones. Roberto ride di quelle che definisce le mie “sparate rockeras”. ma è così contagiato e stimolato da questa canzone-urlo dei Who che torna a dirmi:

Questa canzone è come il mio ritratto, il testo, la storia che racconta. Pensa, si tratta di un ragazzo che trascorre quasi tutta la notte senza riuscire a dormire, finchè non dice a suo padre: papà. non riesco a dormire. Il padre si ricorda di una vecchia fotografia conservata nella sua scrivania. cerca la fotografia e gliela da. La fotografia rappresenta l’immagine porno di una donna nuda. Il ragazzo guarda varie volte l’ammicante fotografia. Si eccita. Si masturba. E poi si addormenta felicissimo. Il giorno dopo dice al padre: papà presentami la ragazza della foto. E il papà gli risponde: Guarda che è morta circa quaranta anni fa! E così termina la storia di questa canzone rock, rock. Bella la storia della canzone, e vera!”
Sí, molto carina gli rispondo. Anche la mia storia. E come si chiama la canzone? “Non so”, dice Roberto; “è in inglese”. Ed esce di nuovo correndo verso la cucina: “Ah dimenticavo la mia tazza di latte!”.

* * *

Le tegole di Quilpué.
“Stanotte ho sognato mia nonna” , dice Roberto, raccontando un altro dei suoi ossessivi e familiari sogni, durante la colazione. “Sono tornato in sogno al paese della mia infanzia. Nel cielo c’era una spada blu. Una grande spada blu che sorvolava le tegole marroni e rosse di Quilpue”
Tema per i Freud e i Jung, gli dico, quando mi chiede come interpreterei io il sogno. Ma è tutto chiaro, Roberto: la tua infanzia rediviva.
“Ho paura” , aggiunge Roberto, “che sia un brutto inizio per la vita”

* * *

Biglietto scritto da Roberto che lascia (o dimentica) sulla tavola da pranzo. Questa volta scritto per chi? Per me? Una strofa di una poesia alla Lope de vega? Semplicemente il biglietto dice:

De tu fementido en lejanías

Recibe mis historias del palacio

Que ardió en cristal de villanías

Y su correr tornó despacio

R.

Del tuo inganno in lontananza

Ricevi le mie storie del palazzo *

Che arse in cristalli di indecenza

E la loro corsa riallungò lo spazio

R.
* la rima forse riprende questo detto:
las cosas de palacio, van despacio

* * *

teschi di zucchero preparati nel giorno dei morti
teschi di zucchero preparati per il 1 novembre festa dei morti a Pátzcuaro.
Un teschio di zucchero.
Al mio ritorno dall’isola di Janitzio, in Pátzcuaro, porto a Roberto un teschio di zucchero dipinto con il suo nome. Roberto la guarda fissamente per un po’ molto serio. E dopo, facendo una risata di gratitudine, dice: “Per la verità, Jaime” assomiglia molto a me”
Dubita per un istante (un essere o non essere in versione tarasca o mazateca) se tenerla per ricordo, omaggio alla celebrazione del giorno dei morti, o semplicemente mangiarsela, come calavera di zucchero qual è. Decide per la seconda opzione, – mangiarsela -, assaporandola senza alcuna fretta, fino a non lasciare niente, nemmeno il suo nome sulla calavera di zucchero, a no ser un gesto risueño en su rostro o de dulce mueca a flor de labios.
Dice, Roberto, chiedendosi: “ Sono io che rido della morte o è la morte che ride di me?”

* * *

In piazza delle tre Culture.
Il silenzio rimane qui questo pomeriggio. Immaginavo un luogo con alberi, molti alberi, panche, giochi infantili. Mi fa impressione trovarmi all’improvviso in una cittadella tutta di pietra: testimonianza di un tempoo, di una cultura, di una razza: mi chiamo tempo e agito un sonaglio di terracotta con semi dentro. la pietra risalta, aggressiva, arrossata dal sole, lasciando nei suoi rilievi il sacro motivo della piramide, del giaguaro, del serpente piumato: le età, la pannocchia, il gioco degli Dei.
Appoggiata alla larga porta della chiesa di Tlatelolco (“che non si aprì quell’ottobre del ’68″I’irruzione nell’universita dell’esercito messicano nel 1968 secondo il racconto della guardia della cittadella), una donna mazateca vende candele, cacahuates, mele caramellate. E’ immutabile, immobile,come aderita alla stessa pietra millenaria del tempio millenario. Disteso a pancia in giù nel giardino, cerco di farle una foto. Dei piccoli fiori gialli si agitano al vento leggero. Aspetto che una nuvola si tolga dal sole e faccio la foto.
Dico a Roberto, che viene con me in questa camminata quasi rituale per la piazza delle tre Culture, che pensavo di trovare qui un segno, un monolite, una targa che ricordasse per il presente e per la storia la Notte di Tlatelolco: l’immolazione, il grido, il sangue: Gli impiegati municipali lavano il sangue nella piazza dei Sacrifici. Roberto, appena mi ascolta, e si raccoglie nelle spalle come volendo dire “cose della storia che non capisco”. e preferisce seguire con lo sguardo la presenza di una istruttrice di boy-scouts, che da lezioni e istruzioni a un gruppo di ragazzini, che corrono da un lato all’altro cercando qualche immaginario tesoro nascosto in questo labirinto di pietra.
Penso alla poesia Messico: Olimpiade del 1968, che Octavio Paz, con rabbia gialla e nera, con accumulazione di bile in spagnolo, scrisse quello stesso ottobre mentre visitava vecchi templi in India, che gliene ricordvano vagamente altri, visti nelle pianure e selve del suo Messico:
la limpidezza non è limpida…. la vergogna è ira rivolta contro se stessi… E’ leone che si acquatta per saltare.
Dall’alta torre del Tempio di Tlatelolco scende una colomba e molto vicino a me becca semi di zucca. E vola, dopo, seguita da un’altra che porta nel suo becco un rametto di zacate secco.pianta di zacate
Chiudo per un istante gli occhi, ed ascolto chiaro:

Non vogliamo Olimpiade,
vogliamo rivoluzione,
gridano i giovani del movimento studentesco del 1968.
Jo, Jo, Jo, Jo Chi Min,
Díaz Ordaz, chin, chin, chin.
Anche:
Bocón,
sal al balcón

Quando li apro, vedo Roberto Bolaño seduto in una banchina di pietra, la gamba alzata e con una luccicante e rosata mela caramellata nella sua mano

3. Cile 1973

SETTEMBRE – OTTOBRE 1973

( E a Santiago del Cile )

Un certo sollievo questa mattina
(e anche una punta di tristezza), nel salutare Roberto Bolaño, giovane amicocileno-messicano, che finalmente può tornare in Messico, e grazie a un’opportuna e diligente azione dell’Ambasciata messicana a Santiago e alle numerose petizioni angoscianti di Victoria Ávalos, sua madre, dd Città del México. Sollievo dico, per la sua e la mia tranquillità. La xenofobia si è scatenata in modo disumanamente implacabile e immesiricordioso in questo Cile, fin ora asilo esemplare contro ogni forma d’oppressione.
Riusciamo appena a darci un frettoloso abbraccio, in questa mattina di settembre-ottobre di tanti addii

Roberto era arrivato in Cile l’ultima settimana di agosto di quel 1973 dopo un lungo viaggio in autobus da Città del Messico (dove viveva dall’età di 15 anni), motivato dall’esperienza del viaggio fatto da me in senso inverso (Santiago-messico), dall’America del Sud verso nord, all’inizio del ’71, andando a vivere per mesi e mesi a casa sua (calle Samuel 27, Colonia GuadalupeTepeyac) grazie all’ospitalità dei suoi genitori e all’accettazione benevola dello stesso Roberto.
Lì, in quella casa di quella stradina del Distretto Federale, lo conobbi e lo sopportai (o lui sopportò me), ragazzo di 18, 19 anni, nevrotico lettore con i sette tomi di Proust otto isuoi occhi, intollerabile (anche se tollerabile) come nessun altro, superdotato a dismisura, bisognoso di tenerezza che va dall’amore intenso all’odio e viceversa, impaziente di sogni immaginari, fumando la notte inetra sigaretta dopo sigaretta, bevendosi il suo mattutino bicchiere di latte, scrivendo un’opera di teatro per da inviare a un concorso cubano e, infine, ritratto di artista adolescente con Joyce e il resto.

E adesso arrivava a sorpresa a casa mia, qui a Santiago (calle La Blanca 0559, Comuna de La Cisterna), per vivere la mia ospitalità e tollerenza e far parte dei “io l’ho visto, io l’ho visto” della realtà quotidiana del governo del Presidente Allende, che tanto fervore e ammirazione aveva, oltre le frontiere del cile e nello stesso governo e popolo messicano

Il golpe militare, tuttavia, lo sorprende mentre stava visitando i familiari a Los Ángeles e Mulchén,, nel centro.sud del paese, nel tentativo di recuperare, forse, la sua infanzia perduta, lì dove frequentò la scuola primaria e lì dove suo padre –León Bolaño-, nella decade degli anni ’50, era un pugile attivo e lucido, secondo una cronaca della rivista Estadio dell’epoca. e poi Concepción, città quelle, e questa dove non sarebbe passato inosservato ai severi controlli militari nelle strade, locali pubblici, terminali di bus e stazioni ferroviarie. il marcato accento messicano della sua parlata e l’aspetto sfacciatamente straniero e provocatorio dei suo ivestiti, gli avrebbero fatto passare momenti di ingrati dispiaceri.

Con un largo e provocatorio cinturone di cuoio, con la fibbia dorata di di pallottole da fucile, Roberto andava tronfio per le strade di santiago e di quelle città del Sud.
“La prima cosa che devi fare”, gli dissi appenà arrivò a santiago , “è toglierti quel cinturone”. Avvertendolo, inoltre, che ormai il paese era nelle mani del controllo e vigilanza militare.

“Mi sono ricordato delle tue avvertenze”, mi dice, al ritorno da quel sud-terribile-sud violento e repressivo, salvato solo da circostanze fortuite di un destino ignorato. E il Roberto, che veniva per ritrovare il Cile che aveva lasciato da ragazzino (“Sono tornato in sogno al paese della mia infanzia. Nel cielo c’era una spada blu. Una grande spada blu che sorvolava le tegole marroni e rosse di Quilpue. sono tornato in sogno al paese dell’infanzia” ), trova, dalla notte al amattino, un Cile barbaro, maltrattante e , a sua volta, maltrattato.

Almeno potè compartire, in quei giorni tanto funesti, un paio di settimane di una certa tranquillità e di amicizia a casa mia, senza smettere di essere lo stesso ragazzo intollerante (anche se tollerante), nevrotico lettore, impaziente, fumando la notte intera, pprendondo le sue tazze di te con latte, e scrivendo, ora, poesie per niente lineari, ma molto intensamente lihniane (o a somiglianza di enrique Lihn, che leggeva molto e con devozione).

Farà parlare di se, gli dissi, – a mo’ di raccomandazione – al funzionario dell?Ambasciata messicana che se lo portò con un taxi di mattina presto, all’aeroporto di santaigo per la rotta di ritorno al Messico della sua residenza e della suo vivere (o dis-vivere)

4. Spagna 1995-1996

E VEINTITRÉ ANNI DOPO

lettera di Bolaño a Jaime Quezada

Blanes, ottobre, 95

caro Jaime:

Ti invio il manoscritto di Stella distante, il mio ultim oromanzo. Due sono le ragioni: la prima è che si tratta di un romanzo troppo cileno per poter interessare atri paesi che non siano il Cile; la seconda è perchè in una delle sue pagine appari tu e credo che sia giusto che debba essere trra i primi a leggerla.

E’ mia intenzione offrirla a Planeta Chilena o a qualksiasi editore che pubblichi romanzi e che paghi.

Se dopo averla letta ti senti di portarla tu all’editore, fallo, sennò, telefona a mia nonna a Santiago (Tel: 22-35-915) e glkiela consegni; lei ha già l’indirizzo di Pianeta. con l’occasione puoi suggerirle altri editori.

Mi interessa molto conoscere la tua opinione. Se ti sembra una merda, dimmelo per favore. (io credo che sia la cosa migliore che abbia mai scritto, ma uno non sa mai niente).

bene, questo è tutto, resto in attesa di tue notizie.

Ricevi un forte abbraccio e un bacio.

Roberto.

lettera di Bolaño a Jaime Quezada

Blanes, marzo, 1996

caro Jaime:

He vendido Estrella Distante; la publicará Anagrama, en Barcelona, a finales de año. Te agradezco que la llevaras a editoriales chilenas.

Me hubiera gustado publicarla en Chile, aunque mi editor dice que algunos ejemplares sí que se venderán allá.

Escríbeme.

Un fuerte abrazo.

Robert

Colofón

No escuches las voces de los amigos muertos

No escuches las voces de los desconocidos

que murieron en veloces atardeceres

de ciudades extranjeras.

R. B.

Colofón

Non ascoltare le voci degli amici morti

Non ascoltare le voci degli sconosciuti

che morirono nei pomeriggi celeri

di città straniere.

R. B.