Varie su Bolano

La leggerezza Italo Calvino

Italo Calvino
“La leggerezza”
(tratto dal libro “Lezioni americane”)

citato da Enrique Vila Matas
Bolano nella distanza

| la molteplicità | |la leggerezza |
Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’aver più cose da dire. Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio. In questa conferenza cercherò di spiegare – a me stesso e a voi – perché sono stato portato a considerare la leggerezza un valore anziché un difetto; quali sono gli esempi tra le opere del passato in cui riconosco il mio ideale di leggerezza; come situo questo valore nel presente e come lo proietto nel futuro. Comincerò dall’ultimo punto.

Quando ho iniziato la mia attività, il dovere di rappresentare il nostro tempo era l’imperativo categorico d’ogni giovane scrittore. Pieno di buona volontà, cercavo d’immedesimarmi nell’energia spietata che muove la storia del nostro secolo, nelle sue vicende collettive e individuali. Cercavo di cogliere una sintonia tra il movimentato spettacolo del mondo, ora drammatico ora grottesco, e il ritmo interiore picaresco e avventuroso che mi spingeva a scrivere. Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle.

In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa. L’unico eroe capace di tagliare la testa della Medusa è Perseo, che vola coi sandali alati, Perseo che non rivolge il suo sguardo sul volto della Gorgone ma solo sulla sua immagine riflessa nello scudo di bronzo. Ecco che Perseo mi viene in soccorso anche in questo momento, mentre mi sentivo già catturare dalla morsa di pietra, come mi succede ogni volta che tento una rievocazione storico-autobiografica. Meglio lasciare che il mio discorso si componga con le immagini della mitologia. Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio. Subito sento la tentazione di trovare in questo mito un’allegoria del rapporto del poeta col mondo, una lezione del metodo da seguire scrivendo. Ma so che ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca: coi miti non bisogna aver fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini.

La lezione che possiamo trarre da un mito sta nella letteralità del racconto, non in ciò che vi aggiungiamo noi dal di fuori. Il rapporto tra Perseo e la Gorgone è complesso: non finisce con la decapitazione del mostro. Dal sangue della Medusa nasce un cavallo alato, Pegaso; la pesantezza della pietra può essere rovesciata nel suo contrario; con un colpo di zoccolo sul Monte Elicona, Pegaso fa scaturire la fonte da cui bevono le Muse. In alcune versioni del mito, sarà Perseo a cavalcare il meraviglioso Pegaso caro alle Muse, nato dal sangue maledetto di Medusa. (Anche i sandali alati, d’altronde, provenivano dal mondo dei mostri: Perseo li aveva avuti dalle sorelle di Medusa, le Graie dall’unico occhio). Quanto alla testa mozzata, Perseo non l’abbandona ma la porta con sé, nascosta in un sacco; quando i nemici stanno per sopraffarlo, basta che egli la mostri sollevandola per la chioma di serpenti, e quella spoglia sanguinosa diventa un’arma invincibile nella mano dell’eroe: un’arma che egli usa solo in casi estremi e solo contro chi merita il castigo di diventare la statua di se stesso. Qui certo il mito vuol dirmi qualcosa, qualcosa che è implicito nelle immagini e che non si può spiegare altrimenti.

Perseo riesce a padroneggiare quel volto tremendo tenendolo nascosto, come prima l’aveva vinto guardandolo nello specchio. E’ sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello. Sul rapporto tra Perseo e la Medusa possiamo apprendere qualcosa di più leggendo Ovidio nelle Metamorfosi. Perseo ha vinto una nuova battaglia, ha massacrato a colpi di spada un mostro marino, ha liberato Andromeda. E ora si accinge a fare quello che ognuno di noi farebbe dopo un lavoraccio del genere: va a lavarsi le mani. In questi casi il suo problema è dove posare la testa di Medusa. E qui Ovidio ha dei versi (Iv, 740-752) che mi paiono straordinari per spiegare quanta delicatezza d’animo sia necessaria per essere un Perseo, vincitore di mostri:

“Perché la ruvida sabbia non sciupi la testa anguicrinita (anguiferumque caput dura ne laedat harena), egli rende soffice il terreno con uno strato di foglie, vi stende sopra dei ramoscelli nati sott’acqua e vi depone la testa di Medusa a faccia in giù”.
Mi sembra che la leggerezza di cui Perseo è l’eroe non potrebbe essere meglio rappresentata che da questo gesto di rinfrescante gentilezza verso quell’essere mostruoso e tremendo ma anche in qualche modo deteriorabile, fragile. Ma la cosa più inaspettata è il miracolo che ne segue: i ramoscelli marini a contatto con la Medusa si trasformano in coralli, e le ninfe per adornarsi di coralli accorrono e avvicinano ramoscelli e alghe alla terribile testa. Anche questo incontro d’immagini, in cui la sottile grazia del corallo sfiora l’orrore feroce della Gorgone, è così carico di suggestioni che non vorrei sciuparlo tentando commenti o interpretazioni.

Quel che posso fare è avvicinare a questi versi d’Ovidio quelli d’un poeta moderno, Piccolo testamento di Eugenio Montale, in cui troviamo pure elementi sottilissimi che sono come emblemi della sua poesia (“traccia madreperlacea di lumaca o smeriglio di vetro calpestato”) messi a confronto con uno spaventoso mostro infernale, un Lucifero dalle ali di bitume che cala sulle capitali dell’Occidente. Mai come in questa poesia scritta nel 1953, Montale ha evocato una visione così apocalittica, ma ciò che i suoi versi mettono in primo piano sono quelle minime tracce luminose che egli contrappone alla buia catastrofe (“Conservane la cipria nello specchietto quando spenta ogni lampada la sardana si farà infernale…”). Ma come possiamo sperare di salvarci in ciò che è più fragile? Questa poesia di Montale è una professione di fede nella persistenza di ciò che più sembra destinato a perire, e nei valori morali investiti nelle tracce più tenui: “il tenue bagliore strofinato laggiù non era quello d’un fiammifero”.

Questo che a notte balugina
nella calotta del mio pensiero,
traccia madreperlacea di lumaca
o smeriglio di vetro calpestato,
non è lume di chiesa o d’officina
che alimenti
chierico rosso, o nero.
Solo quest’iride posso
lasciarti a testimonianza
d’una fede che fu combattuta,
d’una speranza che bruciò più lenta
di un duro ceppo nel focolare.
Conservane la cipria nello specchietto
quando spenta ogni lampada
la sardana si farà infernale
e un ombroso Lucifero scenderà su una prora
del Tamigi, dell’Hudson, della Senna
scuotendo l’ali di bitume semi-mozze dalla fatica,
a dirti: è l’ora.
Non è un’eredità, un portafortuna
che può reggere all’urto dei monsoni
sul fil di ragno della memoria,
ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l’estinzione.
Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato
non può fallire nel ritrovarti.
Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio
non era fuga, l’umiltà non era
vile, il tenue bagliore strofinato
laggiù non era quello di un fiammifero.
[da La bufera parte VII]

Ecco che per riuscire a parlare della nostra epoca, ho dovuto fare un lungo giro, evocare la fragile Medusa di Ovidio e il bituminoso Lucifero di Montale. E’ difficile per un romanziere rappresentare la sua idea di leggerezza, esemplificata sui casi della vita contemporanea, se non facendone l’oggetto irraggiungibile d’una quête senza fine. E’ quanto ha fatto con evidenza e immediatezza Milan Kundera. Il suo romanzo L’Insostenibile Leggerezza dell’Essere è in realtà un’amara constatazione dell’Ineluttabile Pesantezza del Vivere: non solo della condizione d’oppressione disperata e all-pervading che è toccata in sorte al suo sventurato paese, ma d’una condizione umana comune anche a noi, pur infinitamente più fortunati. Il peso del vivere per Kundera sta in ogni forma di costrizione: la fitta rete di costrizioni pubbliche e private che finisce per avvolgere ogni esistenza con nodi sempre più stretti. Il suo romanzo ci dimostra come nella vita tutto quello che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile.

Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza sfuggono a questa condanna: le qualità con cui è scritto il romanzo, che appartengono a un altro universo da quello del vivere. Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro… Nell’universo infinito della letteratura s’aprono sempre altre vie da esplorare, nuovissime o antichissime, stili e forme che possono cambiare la nostra immagine del mondo… Ma se la letteratura non basta ad assicurarmi che non sto solo inseguendo dei sogni, cerco nella scienza alimento per le mie visioni in cui ogni pesantezza viene dissolta… Oggi ogni ramo della scienza sembra ci voglia dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime: come i messaggi del Dna, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall’inizio dei tempi… Poi, l’informatica. E’ vero che il software non potrebbe esercitare i poteri della sua leggerezza se non mediante la pesantezza del hardware; ma è il software che comanda, che agisce sul mondo esterno e sulle macchine, le quali esistono solo in funzione del software, si evolvono in modo d’elaborare programmi sempre più complessi. La seconda rivoluzione industriale non si presenta come la prima con immagini schiaccianti quali presse di laminatoi o colate d’acciaio, ma come i bits d’un flusso d’informazione che corre sui circuiti sotto forma d’impulsi elettronici.

Le macchine di ferro ci sono sempre, ma obbediscono ai bits senza peso. E’ legittimo estrapolare dal discorso delle scienze un’immagine del mondo che corrisponda ai miei desideri? Se l’operazione che sto tentando mi attrae, è perché sento che essa potrebbe riannodarsi a un filo molto antico nella storia della poesia. Il De rerum natura di Lucrezio è la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero. Lucrezio vuole scrivere il poema della materia ma ci avverte subito che la vera realtà di questa materia è fatta di corpuscoli invisibili. E’ il poeta della concretezza fisica, vista nella sua sostanza permanente e immutabile, ma per prima cosa ci dice che il vuoto è altrettanto concreto che i corpi solidi. La più grande preoccupazione di Lucrezio sembra quella di evitare che il peso della materia ci schiacci. Al momento di stabilire le rigorose leggi meccaniche che determinano ogni evento, egli sente il bisogno di permettere agli atomi delle deviazioni imprevedibili dalla linea retta, tali da garantire la libertà tanto alla materia quanto agli esseri umani.

La poesia dell’invisibile, la poesia delle infinite potenzialità imprevedibili, così come la poesia del nulla nascono da un poeta che non ha dubbi sulla fisicità del mondo. Questa polverizzazione della realtà s’estende anche agli aspetti visibili, ed è là che eccelle la qualità poetica di Lucrezio: i granelli di polvere che turbinano in un raggio di sole in una stanza buia (Ii, 114-124); le minute conchiglie tutte simili e tutte diverse che l’onda mollemente spinge sulla bibula harena, sulla sabbia che s’imbeve (Ii, 374-376); le ragnatele che ci avvolgono senza che noi ce ne accorgiamo mentre camminiamo (Iii, 381-390). Ho già citato le Metamorfosi d’Ovidio, un altro poema enciclopedico (scritto una cinquantina d’anni più tardi di quello di Lucrezio) che parte, anziché dalla realtà fisica, dalle favole mitologiche. Anche per Ovidio tutto può trasformarsi in nuove forme; anche per Ovidio la conoscenza del mondo è dissoluzione della compattezza del mondo; anche per Ovidio c’è una parità essenziale tra tutto ciò che esiste, contro ogni gerarchia di poteri e di valori.

Se il mondo di Lucrezio è fatto d’atomi inalterabili, quello d’Ovidio è fatto di qualità, d’attributi, di forme che definiscono la diversità d’ogni cosa e pianta e animale e persona; ma questi non sono che tenui involucri d’una sostanza comune che, – se agitata da profonda passione – può trasformarsi in quel che vi è di più diverso. E’ nel seguire la continuità del passaggio da una forma a un’altra che Ovidio dispiega le sue ineguagliabili doti: quando racconta come una donna s’accorge che sta trasformandosi in giuggiolo: i piedi le rimangono inchiodati per terra, una corteccia tenera sale a poco a poco e le serra le inguini; fa per strapparsi i capelli e ritrova la mano piena di foglie. O quando racconta delle dita di Aracne, agilissime nell’agglomerare e sfilacciare la lana, nel far girare il fuso, nel muovere l’ago da ricamo, e che a un tratto vediamo allungarsi in esili zampe di ragno e mettersi a tessere ragnatele. Tanto in Lucrezio quanto in Ovidio la leggerezza è un modo di vedere il mondo che si fonda sulla filosofia e sulla scienza: le dottrine di Epicuro per Lucrezio, le dottrine di Pitagora per Ovidio (un Pitagora che, come Ovidio ce lo presenta, somiglia molto a Budda). Ma in entrambi i casi la leggerezza è qualcosa che si crea nella scrittura, con i mezzi linguistici che sono quelli del poeta, indipendentemente dalla dottrina del filosofo che il poeta dichiara di voler seguire. Da quanto ho detto fin qui mi pare che il concetto di leggerezza cominci a precisarsi; spero innanzitutto d’aver dimostrato che esiste una leggerezza della pensosità, così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi, la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca.

Non potrei illustrare meglio questa idea che con una novella del Decameron (Vi, 9) dove appare il poeta fiorentino Guido Cavalcanti. Boccaccio ci presenta Cavalcanti come un austero filosofo che passeggia meditando tra i sepolcri di marmo davanti a una chiesa. La jeunesse dorée fiorentina cavalcava per la città in brigate che passavano da una festa all’altra, sempre cercando occasioni d’ampliare il loro giro di scambievoli inviti. Cavalcanti non era popolare tra loro, perché, benché fosse ricco ed elegante, non accettava mai di far baldoria con loro e perché la sua misteriosa filosofia era sospettata d’empietà:

Ora avvenne un giorno che, essendo Guido partito d’Orto San Michele e venutosene per lo Corso degli Adimari infino a San Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino, essendo arche grandi di marmo, che oggi sono in Santa Reparata, e molte altre dintorno a San Giovanni, e egli essendo tralle colonne del porfido che vi sono e quelle arche e la porta di San Giovanni, che serrata era, messer Betto con sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, vedendo Guido là tra quelle sepolture, dissero: “Andiamo a dargli briga”; e spronati i cavalli, a guisa d’uno assalto sollazzevole gli furono, quasi prima che egli se ne avvedesse, sopra e cominciarongli a dire: “Guido, tu rifiuti d’esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu avrai trovato che Idio non sia, che avrai fatto?”. A’ quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: “Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace”; e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fusi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se n’andò.

Ciò che qui ci interessa non è tanto la battuta attribuita a Cavalcanti, (che si può interpretare considerando che il preteso “epicureismo” del poeta era in realtà averroismo, per cui l’anima individuale fa parte dell’intelletto universale: le tombe sono casa vostra e non mia in quanto la morte corporea è vinta da chi s’innalza alla contemplazione universale attraverso la speculazione dell’intelletto). Ciò che ci colpisce è l’immagine visuale che Boccaccio evoca: Cavalcanti che si libera d’un salto “sì come colui che leggerissimo era”. Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta- filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite. Vorrei che conservaste quest’immagine nella mente, ora che vi parlerò di Cavalcanti poeta della leggerezza. Nelle sue poesie le “dramatis personae” più che personaggi umani sono sospiri, raggi luminosi, immagini ottiche, e soprattutto quegli impulsi o messaggi immateriali che egli chiama “spiriti”. Un tema niente affatto leggero come la sofferenza d’amore, viene dissolto da Cavalcanti in entità impalpabili che si spostano tra anima sensitiva e anima intellettiva, tra cuore e mente, tra occhi e voce. Insomma, si tratta sempre di qualcosa che è contraddistinto da tre caratteristiche:

1) è leggerissimo;

2) è in movimento;

3) è un vettore d’informazione.

In alcune poesie questo messaggio-messaggero è lo stesso testo poetico: nella più famosa di tutte, il poeta esiliato si rivolge alla ballata che sta scrivendo e dice: “Va tu, leggera e piana dritt’a la donna mia”. In un’altra sono gli strumenti della scrittura – penne e arnesi per far la punta alle penne – che prendono la parola: “Noi siàn le triste penne isbigottite, le cesoiuzze e’l coltellin dolente…”. In un sonetto la parola “spirito” o “spiritello” compare in ogni verso: in un’evidente autoparodia, Cavalcanti porta alle ultime conseguenze la sua predilezione per quella parola-chiave, concentrando nei 14 versi un complicato racconto astratto in cui intervengono 14 “spiriti” ognuno con una diversa funzione. In un altro sonetto, il corpo viene smembrato dalla sofferenza amorosa, ma continua a camminare come un automa “fatto di rame o di pietra o di legno”. Già in un sonetto di Guinizelli la pena amorosa trasformava il poeta in una statua d’ottone: un’immagine molto concreta, che ha la forza proprio nel senso di peso che comunica. In Cavalcanti, il peso della materia si dissolve per il fatto che i materiali del simulacro umano possono essere tanti, intercambiabili; la metafora non impone un oggetto solido, e neanche la parola “pietra” arriva ad appesantire il verso. Ritroviamo quella parità di tutto ciò che esiste di cui ho parlato a proposito di Lucrezio e di Ovidio. Un maestro della critica stilistica italiana, Gianfranco Contini, la definisce “parificazione cavalcantiana dei reali”. L’esempio più felice di “parificazione dei reali”, Cavalcanti lo dà in un sonetto che s’apre con una enumerazione d’immagini di bellezza, tutte destinate a essere superate dalla bellezza della donna amata:

Biltà di donna e di saccente core
e cavalieri armati che sien genti;
cantar d’augilli e ragionar d’amore;
04 adorni legni ‘n mar forte correnti;

aria serena quand’ apar l’albore
e bianca neve scender senza venti;
rivera d’acqua e prato d’ogni fiore;
08 oro, argento, azzuro ‘n ornamenti:

Il verso
“e bianca neve scender senza venti”
è stato ripreso con poche varianti da Dante nell’Inferno (Xiv, 30):
“come di neve in alpe sanza vento” .
I due versi sono quasi identici, eppure esprimono due concezioni completamente diverse. In entrambi la neve senza vento evoca un movimento lieve e silenzioso. Ma qui si ferma la somiglianza e comincia la diversità. In Dante il verso è dominato dalla specificazione del luogo (“in alpe”), che evoca uno scenario montagnoso. Invece in Cavalcanti l’aggettivo “bianca”, che potrebbe sembrare pleonastico, unito al verbo “scendere”, anch’esso del tutto prevedibile, cancellano il paesaggio in un’atmosfera di sospesa astrazione. Ma è soprattutto la prima parola a determinare il diverso significato dei due versi. In Cavalcanti la congiunzione “e” mette la neve sullo stesso piano delle altre visioni che la precedono e la seguono: una fuga di immagini, che è come un campionario delle bellezze del mondo. In Dante l’avverbio “come” rinchiude tutta la scena nella cornice d’una metafora, ma all’interno di questa cornice essa ha una sua realtà concreta, così come una realtà non meno concreta e drammatica ha il paesaggio dell’Inferno sotto una pioggia di fuoco, per illustrare il quale viene introdotta la similitudine con la neve. In Cavalcanti tutto si muove così rapidamente che non possiamo renderci conto della sua consistenza ma solo dei suoi effetti; in Dante, tutto acquista consistenza e stabilità: il peso delle cose è stabilito con esattezza.

Anche quando parla di cose lievi, Dante sembra voler rendere il peso esatto di questa leggerezza: “come di neve in alpe sanza vento”. Così come in un altro verso molto simile, la pesantezza d’un corpo che affonda nell’acqua e scompare è come trattenuta e attutita: “come per acqua cupa cosa grave” (Paradiso Iii, 123). A questo punto dobbiamo ricordarci che l’idea del mondo come costituito d’atomi senza peso ci colpisce perché abbiamo esperienza del peso delle cose; così come non potremmo ammirare la leggerezza del linguaggio se non sapessimo ammirare anche il linguaggio dotato di peso. Possiamo dire che due vocazioni opposte si contendono il campo della letteratura attraverso i secoli: l’una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, o meglio un pulviscolo sottile, o meglio ancora come un campo d’impulsi magnetici; l’altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni. Alle origini della letteratura italiana – e europea – queste due vie sono aperte da Cavalcanti e da Dante. L’opposizione vale naturalmente nelle sue linee generali, ma richiederebbe innumerevoli specificazioni, data l’enorme ricchezza di risorse di Dante e la sua straordinaria versatilità. Non è un caso che il sonetto di Dante ispirato alla più felice leggerezza (“Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io”) sia dedicato a Cavalcanti.

Nella Vita nuova, Dante tratta la stessa materia del suo maestro e amico, e vi sono parole, motivi e concetti che si trovano in entrambi i poeti; quando Dante vuole esprimere leggerezza, anche nella Divina Commedia, nessuno sa farlo meglio di lui; ma la sua genialità si manifesta nel senso opposto, nell’estrarre dalla lingua tutte le possibilità sonore ed emozionali e d’evocazione di sensazioni, nel catturare nel verso il mondo in tutta la varietà dei suoi livelli e delle sue forme e dei suoi attributi, nel trasmettere il senso che il mondo è organizzato in un sistema, in un ordine, in una gerarchia dove tutto trova il suo posto. Forzando un po’ la contrapposizione potrei dire che Dante dà solidità corporea anche alla più astratta speculazione intellettuale, mentre Cavalcanti dissolve la concretezza dell’esperienza tangibile in versi dal ritmo scandito, sillabato, come se il pensiero si staccasse dall’oscurità in rapide scariche elettriche. L’essermi soffermato su Cavalcanti m’è servito a chiarire meglio (almeno a me stesso) cosa intendo per “leggerezza”. La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso. Paul Valéry ha detto: “Il faut être léger comme l’oiseau, et non comme la plume”. Mi sono servito di Cavalcanti per esemplificare la leggerezza in almeno tre accezioni diverse:

1) un alleggerimento del linguaggio per cui i significati vengono convogliati su un tessuto verbale come senza peso, fino ad assumere la stessa rarefatta consistenza. Lascio a voi trovare altri esempi in questa direzione. Per esempio Emily Dickinson può fornircene quanti vogliamo:

A sepal, petal, and a thorn
Upon a common summer’s morn
A flask of Dew – a Bee or two
A Breeze
a caper in the trees
And I’m a Rose!

Un sepalo e un petalo e una spina
in un comune mattino d’estate,
un fiasco di rugiada, un’ape o due,
una brezza,
un frullo in mezzo agli alberi –
ed io sono una rosa!
2) la narrazione d’un ragionamento o d’un processo psicologico in cui agiscono elementi sottili e impercettibili, o qualunque descrizione che comporti un alto grado d’astrazione. E qui per cercare un esempio più moderno possiamo provare con Henry James, anche aprendo un suo libro a caso:

It was as if these depths, constantly bridged over by a structure that was firm enough in spite of its lightness and of its occasional oscillation in the somewhat vertiginous air, invited on occasion, in the interest of their nerves, a dropping of the plummet and a measurement of the abyss. A difference had been made moreover, once for all, by the fact that she had, all the while, not appered to feel the need of rebutting his charge of an idea within her that she didn’t dare to express, uttered just before one of the fullest of their later discussions ended. (The Beast in the Jungle)

Queste profondità, costantemente unite da un ponte abbastanza solido malgrado la sua levità e le sue occasionali oscillazioni nell’aria alquanto vertiginosa, richiedevano ogni tanto, nell’interesse dei loro nervi, la calata dello scandaglio e la misurazione dell’abisso. Una differenza, inoltre, era stata creata una volta per sempre dal fatto che May, durante tutto il tempo, non parve sentire la necessità di respingere l’accusa di celare un’idea, che non osava esprimere, accusa che Marcher le mosse proprio alla fine di una delle loro ultime discussioni.
3) una immagine figurale di leggerezza che assuma un valore emblematico, come, nella novella di Boccaccio, Cavalcanti che volteggia con le sue smilze gambe sopra la pietra tombale. Ci sono invenzioni letterarie che s’impongono alla memoria per la loro suggestione verbale più che per le parole. La scena di Don Quijote che infilza con la lancia una pala del mulino a vento e viene trasportato in aria occupa poche righe del romanzo di Cervantes; si può dire che in essa l’autore non ha investito che in minima misura le risorse della sua scrittura; ciononostante essa resta uno dei luoghi più famosi della letteratura di tutti i tempi.

[
… spinse Ronzinante a gran galoppo e investì il primo mulino che si trovò davanti; diede un gran colpo di lancia alla pala, il vento la faceva girar con tal furia che spezzò la lancia e sollevò con sé il cavallo e il cavaliere che rotolò malridotto per il campo.
(dal testo in spagnolo: Don Quijote de la Mancia, Miguel de Cervantes Saavedra, Barcelona, Editorial Juventud, 1955)
]

Penso che con queste indicazioni posso mettermi a sfogliare i libri della mia biblioteca in cerca d’esempi di leggerezza. In Shakespeare vado subito a cercare il punto in cui Mercuzio entra in scena: “You are a lover; borrow Cupid’s wings and soar with them above a common bound” (Tu sei innamorato: fatti prestare le ali da Cupido e levati più alto d’un salto). Mercuzio contraddice subito Romeo che ha appena detto: “Under love’s heavy burden do I sink”
(io sprofondo sotto un peso d’amore).

Il modo di Mercuzio di muoversi nel mondo è definito dai primi verbi che usa: to dance, to soar, to prickle (ballare, levarsi, pungere). La sembianza umana è una maschera, a visor. E’ appena entrato in scena e già sente il bisogno di spiegare la sua filosofia, non con un discorso teorico, ma raccontando un sogno: la Regina Mab. Queen Mab, the fairies’ midwife, appare su una carrozza fatta con “an empty hazel-nut” (La Regina Mab, levatrice delle fate ?appare su una carrozza fatta con: “un guscio di nocciola”);

Her waggon-spokes made of long spinners’ legs; The cover, of the wings of grasshoppers; The traces, of the smallest spider’s web; The collars, of the moonshine’s watery beams; Her whip, of cricket’s bone; the lash, of film;

Lunghe zampe di ragno sono i raggi delle sue ruote; d’elitre di cavalletta è il mantice; di ragnatela della più sottile i finimenti; roridi raggi di luna i pettorali; manico della frusta un osso di grillo; sferza, un filo senza fine e non dimentichiamo che questa carrozza è “drawn with a team of little atomies” (scarrozzata da un equipaggio d’atomi impalpabili): un dettaglio decisivo, mi sembra, che permette al sogno della Regina Mab di fondere atomismo lucreziano, neoplatonismo rinascimentale e celtic-lore. Anche il passo danzante di Mercuzio vorremmo che ci accompagnasse fin oltre la soglia del nuovo millennio.

L’epoca che fa da sfondo a Romeo and Juliet ha molti aspetti non troppo dissimili da quelli dei nostri tempi: le città insanguinate da contese violente non meno insensate di quelle tra Capuleti e Montecchi; la liberazione sessuale predicata dalla Nurse che non riesce a diventare modello d’amore universale; gli esperimenti di Friar Laurence condotti col generoso ottimismo della sua “filosofia naturale” ma che non si è mai sicuri se verranno usati per la vita o per la morte. Il Rinascimento shakespeariano conosce gli influssi eterei che connettono macrocosmo e microcosmo, dal firmamento neoplatonico agli spiriti dei metalli che si trasformano nel crogiolo degli alchimisti. Le mitologie classiche possono fornire il loro repertorio di ninfe e di driadi, ma le mitologie celtiche sono certo più ricche nella imagerie delle più sottili forze naturali coi loro elfi e le loro fate.

Questo sfondo culturale (penso naturalmente agli affascinanti studi di Francis Yates sulla filosofia occulta del Rinascimento e sui suoi echi nella letteratura) spiega perché in Shakespeare si possa trovare l’esemplificazione più ricca del mio tema. E non sto pensando solo a Puck e a tutta la fantasmagoria del Dream, o a Ariel e a tutti coloro che “are such stuff As dreams are made on,” (noi siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni,) ma soprattutto a quella speciale modulazione lirica ed esistenziale che permette di contemplare il proprio dramma come dal di fuori e dissolverlo in malinconia e ironia.

La gravità senza peso di cui ho parlato a proposito di Cavalcanti riaffiora nell’epoca di Cervantes e di Shakespeare: è quella speciale connessione tra melanconia e umorismo, che è stata studiata in Saturn and Melancholy da Klibansky, Panofsky, Saxl. Come la melanconia è la tristezza diventata leggera, così lo humour è il comico che ha perso la pesantezza corporea (quella dimensione della carnalità umana che pur fa grandi Boccaccio e Rabelais) e mette in dubbio l’io e il mondo e tutta la rete di relazioni che li costituiscono. Melanconia e humour mescolati e inseparabili caratterizzano l’accento del Principe di Danimarca che abbiamo imparato a riconoscere in tutti o quasi i drammi shakespeariani sulle labbra dei tanti avatars del personaggio Amleto. Uno di essi, Jaques in As You Like It, così definisce la melanconia (atto Iv, scena I):

… but it is a melancholy of my own,
compounded of many simples, extracted from
many objects, and indeed the sundry
contemplation of my travels, which, by
often rumination, wraps me in a most
humorous sadness.

… è la mia peculiare malinconia
composta da elementi diversi, quintessenza
di varie sostanze, e più precisamente di
tante differenti esperienze di viaggi
durante i quali quel perpetuo ruminare mi
ha sprofondato in una capricciosissima
tristezza.
Non è una melanconia compatta e opaca, dunque, ma un velo di particelle minutissime d’umori e sensazioni, un pulviscolo d’atomi come tutto ciò che costituisce l’ultima sostanza della molteplicità delle cose. Confesso che la tentazione di costruirmi uno Shakespeare seguace dell’atomismo lucreziano è per me molto forte, ma so che sarebbe arbitrario. Il primo scrittore del mondo moderno che fa esplicita professione d’una concezione atomistica dell’universo nella sua trasfigurazione fantastica, lo troviamo solo alcuni anni dopo, in Francia: Cyrano de Bergerac. Straordinario scrittore, Cyrano, che meriterebbe d’essere più ricordato, e non solo come primo vero precursore della fantascienza, ma per le sue qualità intellettuali e poetiche. Seguace del sensismo di Gassendi e dell’astronomia di Copernico, ma soprattutto nutrito della “filosofia naturale” del Rinascimento italiano – Cardano, Bruno, Campanella – Cyrano è il primo poeta dell’atomismo nelle letterature moderne. In pagine la cui ironia non fa velo a una vera commozione cosmica, Cyrano celebra l’unità di tutte le cose, inanimate o animate, la combinatoria di figure elementari che determina la varietà delle forme viventi, e soprattutto egli rende il senso della precarietà dei processi che le hanno create: cioè quanto poco è mancato perché l’uomo non fosse l’uomo, e la vita la vita, e il mondo un mondo.

Vous vous étonnez comme cette matière, brouillèe pêle- mêle, au gré du hasard, peut avoir constitué un homme, vu qu’il y avait tant de choses nécessaires à la construction de son être, mais vous ne savez pas que cent milions de fois cette matière, s’acheminant au dessein d’un homme, s’est arrêtée à former tantôt une pierre, tantôt du plomb, tantôt du corail, tantôt une fleur, tantôt une comète, pour le trop ou trop peu de certaines figures qu’il fallait ou ne fallait pas à désigner un homme? Si bien que ce n’est pas merveille qu’entre une infinie quantité de matière qui change et se remue incessamment, elle ait rencontré à faire le peu d’animaux, de végétaux, de minéraux que nous voyons; non plus que ce n’est pas merveille qu’en cent coups de dés il arrive une rafle. Aussi bien est-il impossible que de ce remuement il ne se fasse quelque chose, et cette chose sera toujours admirée d’un étourdi qui ne saura pas combien peu s’en est fallu qu’elle n’ait pas été faite. (Voyage dans la Lune)

Vi meravigliate come questa materia mescolata alla rinfusa, in balia del caso, può aver costituito un uomo, visto che c’erano tante cose necessarie alla costruzione del suo essere, ma non sapete che cento milioni di volte questa materia, mentre era sul punto di produrre un uomo, si è fermata a formare ora una pietra, ora del piombo, ora del corallo, ora un fiore, ora una cometa, per le troppe o troppo poche figure che occorrevano o non occorrevano per progettare un uomo. Come non fa meraviglia che tra un’infinita quantità di materia che cambia e si muove incessantemente, sia capitato di fare i pochi animali, vegetali, minerali che vediamo, così come non fa meraviglia che su cento colpi di dadi esca una pariglia. E’ pertanto impossibile che da questo lieve movimento non si faccia qualcosa, e questa cosa sarà sempre fonte di stupore per uno sventato che non pensa quanto poco è mancato perché non fosse fatta.
Per questa via Cyrano arriva a proclamare la fraternità degli uomini con i cavoli, e così immagina la protesta d’un cavolo che sta per essere tagliato:

“Homme, mon cher frère, que t’ai-je fait qui mérite la mort? (…) Je me lève de terre, je m’épanouis, je te tends les bras, je t’offre mes enfants en graine, et pour récompense de ma courtoisie, tu me fais trancher la tête!”.

“mio caro fratello uomo, che cosa ho fatto per meritare la morte? (…) Mi sollevo da terra, mi schiudo, stendo le braccia, ti offro i miei figli in seme e, per ricompensa della mia cortesia, tu mi fai tagliare la testa!”.
Se pensiamo che questa perorazione per una vera fraternità universale è stata scritta quasi centocinquant’anni prima della Rivoluzione francese, vediamo come la lentezza della coscienza umana a uscire dal suo parochialism antropocentrico può essere annullata in un istante dall’invenzione poetica. Tutto questo nel contesto d’un viaggio sulla luna, dove Cyrano de Bergerac supera per immaginazione i suoi più illustri predecessori, Luciano di Samosata e Ludovico Ariosto.

Nella mia trattazione sulla leggerezza, Cyrano figura soprattutto per il modo in cui, prima di Newton, egli ha sentito il problema della gravitazione universale; o meglio, è il problema di sottrarsi alla forza di gravità che stimola talmente la sua fantasia da fargli inventare tutta una serie di sistemi per salire sulla luna, uno più ingegnoso dell’altro: con fiale piene di rugiada che evaporano al sole; ungendosi di midollo di bue che viene abitualmente succhiato dalla luna; con una palla calamitata lanciata in aria verticalmente ripetute volte da una navicella. Quanto al sistema della calamita, sarà sviluppato e perfezionato da Jonathan Swift per sostenere in aria l’isola volante di Laputa. E’ un momento, quello dell’apparizione di Laputa in volo, in cui le due ossessioni di Swift sembra si annullino in un magico equilibrio: dico l’astrazione incorporea del razionalismo contro il quale egli dirige la sua satira, e il peso materiale della corporeità.

gradations of Galleries and Stairs, at certain intervals, to descend from one to the other. In the lowest Gallery I beheld some People fishing with long Angling Rods, and others looking on.

…ond’io potei vederne i fianchi cinti di parecchie serie di corridoi e scalinate, a certi dati intervalli, per poter discendere da uno in altro corridoio. Nella più bassa di queste gallerie, vidi alcuni uomini che pescavano con certe lunghe canne, ed altri che stavano a guardare.
Swift è contemporaneo e avversario di Newton. Voltaire è un ammiratore di Newton, e immagina un gigante, Micromégas, che all’opposto di quelli di Swift, è definito non dalla sua corporeità ma da dimensioni espresse in cifre, da proprietà spaziali e temporali enunciate nei termini rigorosi e impassibili dei trattati scientifici. In virtù di questa logica e di questo stile, Micromégas riesce a viaggiare nello spazio da Sirio a Saturno alla Terra. Si direbbe che nelle teorie di Newton ciò che colpisce l’immaginazione letteraria non sia il condizionamento d’ogni cosa e persona alla fatalità del proprio peso, bensì l’equilibrio delle forze che permette ai corpi celesti di librarsi nello spazio. L’immaginazione del secolo Xviii è ricca di figure sospese per aria. Non per nulla agli inizi del secolo la traduzione francese delle Mille e una Notte di Antoine Galland aveva aperto alla fantasia occidentale gli orizzonti del meraviglioso orientale: tappeti volanti, cavalli volanti, geni che escono da lampade.

Di questa spinta dell’immaginazione a superare ogni limite, il secolo Xviii conoscerà il culmine col volo del Barone di Münchausen su una palla di cannone, immagine che nella nostra memoria si è identificata definitivamente con l’illustrazione che è il capolavoro di Gustave Doré. Le avventure di Münchausen, che come le Mille e una Notte non si sa se abbiano avuto un autore, molti autori o nessuno, sono una continua sfida alla legge della gravitazione: il Barone è portato in volo dalle anatre, solleva se stesso e il cavallo tirandosi su per la coda della parrucca, scende dalla luna tenendosi a una corda più volte tagliata e riannodata durante la discesa. Queste immagini della letteratura popolare, insieme a quelle che abbiamo visto della letteratura colta, accompagnano la fortuna letteraria delle teorie di Newton.

Giacomo Leopardi a quindici anni scrive una storia dell’astronomia di straordinaria erudizione, in cui tra l’altro compendia le teorie newtoniane. La contemplazione del cielo notturno che ispirerà a Leopardi i suoi versi più belli non era solo un motivo lirico; quando parlava della luna Leopardi sapeva esattamente di cosa parlava. Leopardi, nel suo ininterrotto ragionamento sull’insostenibile peso del vivere, dà alla felicità irraggiungibile immagini di leggerezza: gli uccelli, una voce femminile che canta da una finestra, la trasparenza dell’aria, e soprattutto la luna. La luna, appena s’affaccia nei versi dei poeti, ha avuto sempre il potere di comunicare una sensazione di levità, di sospensione, di silenzioso e calmo incantesimo. In un primo momento volevo dedicare questa conferenza tutta alla luna: seguire le apparizioni della luna nelle letterature d’ogni tempo e paese. Poi ho deciso che la luna andava lasciata tutta a Leopardi. Perché il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare. Le numerose apparizioni della luna nelle sue poesie occupano pochi versi ma bastano a illuminare tutto il componimento di quella luce o a proiettarvi l’ombra della sua assenza.

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna..
(da La sera del dì di festa)

O graziosa luna, io mi rammento
che, or volge l’anno, sovra questo colle
io venia pien d’angoscia a rimirarti:
e tu pendevi allor su quella selva
siccome or fai, che tutta la rischiari.
(da Alla luna)

O cara luna, al cui tranquillo raggio
Danzan le lepri nelle selve…
(da La vita solitaria)
………..
Già tutta l’aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
giù da’ colli e da’ tetti,
al biancheggiar della recente luna.
…………….
(da Il sabato del villaggio)

Che fai tu, luna in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi….
(da Canto notturno di un pastore errante)
Molti fili si sono intrecciati nel mio discorso? Quale filo devo tirare per trovarmi tra le mani la conclusione? C’è il filo che collega la Luna, Leopardi, Newton, la gravitazione e la levitazione… C’è il filo di Lucrezio, l’atomismo, la filosofia dell’amore di Cavalcanti, la magia rinascimentale, Cyrano… Poi c’è il filo della scrittura come metafora della sostanza pulviscolare del mondo: già per Lucrezio le lettere erano atomi in continuo movimento che con le loro permutazioni creavano le parole e i suoni più diversi; idea che fu ripresa da una lunga tradizione di pensatori per cui i segreti del mondo erano contenuti nella combinatoria dei segni della scrittura: l’Ars Magna di Ramòn Llull, la Kabbala dei rabbini spagnoli e quella di Pico della Mirandola… Anche Galileo vedrà nell’alfabeto il modello d’ogni combinatoria d’unità minime… Poi Leibniz…

Devo imboccare questa strada? Ma la conclusione che mi attende non suonerà troppo scontata? La scrittura modello d’ogni processo della realtà… anzi, unica realtà conoscibile… anzi, unica realtà tout-court… No, non mi metterò su questo binario obbligato che mi porta troppo lontano dall’uso della parola come io la intendo, come inseguimento perpetuo delle cose, adeguamento alla loro varietà infinita. Resta ancora un filo, quello che avevo cominciato a svolgere all’inizio: la letteratura come funzione esistenziale, la ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere.

Forse anche Lucrezio, anche Ovidio erano mossi da questo bisogno: Lucrezio che cercava – o credeva di cercare – l’impassibilità epicurea; Ovidio che cercava – o credeva di cercare – la resurrezione in altre vite secondo Pitagora. Abituato come sono a considerare la letteratura come ricerca di conoscenza, per muovermi sul terreno esistenziale ho bisogno di considerarlo esteso all’antropologia, all’etnologia, alla mitologia. Alla precarietà dell’esistenza della tribù, – siccità, malattie, influssi maligni – lo sciamano rispondeva annullando il peso del suo corpo, trasportandosi in volo in un altro mondo, in un altro livello di percezione, dove poteva trovare le forze per modificare la realtà.

In secoli e civiltà più vicini a noi, nei villaggi dove la donna sopportava il peso più grave d’una vita di costrizioni, le streghe volavano di notte sui manici delle scope e anche su veicoli più leggeri come spighe o fili di paglia. Prima di essere codificate dagli inquisitori queste visioni hanno fatto parte dell’immaginario popolare, o diciamo pure del vissuto. Credo che sia una costante antropologica questo nesso tra levitazione desiderata e privazione sofferta. E’ questo dispositivo antropologico che la letteratura perpetua. Prima, la letteratura orale: nelle fiabe il volo in un altro mondo è una situazione che si ripete molto spesso. Tra le “funzioni” catalogate da Propp nella Morfologia della fiaba esso è uno dei modi del “trasferimento dell’eroe” così definito: “Di solito l’oggetto delle ricerche si trova in un “altro” “diverso” reame, che può essere situato molto lontano in linea orizzontale o a grande altezza o profondità in senso verticale”.

Propp passa in seguito a elencare vari esempi del caso “L’eroe vola attraverso l’aria”: “a dorso di cavallo o d’uccello, in sembianza d’uccello, su una nave volante, su un tappeto volante, sulle spalle d’un gigante o d’uno spirito, nella carrozza del diavolo, ecc'”. Non mi pare una forzatura connettere questa funzione sciamanica e stregonesca documentata dall’etnologia e dal folklore con l’immaginario letterario; al contrario penso che la razionalità più profonda implicita in ogni operazione letteraria vada cercata nelle necessità antropologiche a cui essa corrisponde. Vorrei chiudere questa conferenza ricordando un racconto di KafKa, Der Kübelreiter (Il cavaliere del secchio).

E’ un breve racconto in prima persona, scritto nel 1917 e il suo punto di partenza è evidentemente una situazione ben reale in quell’inverno di guerra, il più terribile per l’impero austriaco: la mancanza di carbone. Il narratore esce col secchio vuoto in cerca di carbone per la stufa. Per la strada il secchio gli fa da cavallo, anzi lo solleva all’altezza dei primi piani e lo trasporta ondeggiando come sulla groppa d’un cammello. La bottega del carbonaio è sotterranea e il cavaliere del secchio è troppo in alto; stenta a farsi intendere dall’uomo che sarebbe pronto ad accontentarlo, mentre la moglie non lo vuole sentire. Lui li supplica di dargli una palata del carbone più scadente, anche se non può pagare subito. La moglie del carbonaio si slega il grembiule e scaccia l’intruso come caccerebbe una mosca. Il secchio è così leggero che vola via col suo cavaliere, fino a perdersi oltre le Montagne di Ghiaccio.

Molti dei racconti brevi di Kafka sono misteriosi e questo lo è particolarmente. Forse Kafka voleva solo raccontarci che uscire alla ricerca d’un po’ di carbone, in una fredda notte del tempo di guerra, si trasforma in quête di cavaliere errante, traversata di carovana nel deserto, volo magico, al semplice dondolio del secchio vuoto. Ma l’idea di questo secchio vuoto che ti solleva al di sopra del livello dove si trova l’aiuto e anche l’egoismo degli altri, il secchio vuoto segno di privazione e desiderio e ricerca, che ti eleva al punto che la tua umile preghiera non potrà più essere esaudita, – apre la via a riflessioni senza fine.

Avevo parlato dello sciamano e dell’eroe delle fiabe, della privazione sofferta che si trasforma in leggerezza e permette di volare nel regno in cui ogni mancanza sarà magicamente risarcita. Avevo parlato delle streghe che volavano su umili arnesi domestici come può essere un secchio. Ma l’eroe di questo racconto di Kafka, non sembra dotato di poteri sciamanici né stregoneschi; né il regno al di là delle Montagne di Ghiaccio sembra quello in cui il secchio vuoto troverà di che riempirsi. Tanto più che se fosse pieno non permetterebbe di volare. Così, a cavallo del nostro secchio, ci affacceremo al nuovo millennio, senza sperare di trovarvi nulla di più di quello che saremo capaci di portarvi. La leggerezza, per esempio, le cui virtù questa conferenza ha cercato d’illustrare.