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La poesia medioevale

Trovatori e Trovieri

© Augusto Mastrantoni

• caratteri generali • la musica • la pronuncia

“Caratteri generali”

Trovatori e Trovieri sono nomi che indicano poeti e musicisti medievali che operarono in contesti sociali e culturali distinti tra loro per epoca, lingua e collocazione geografica.

Quantunque il fenomeno poetico-musicale di Troubadours e Trouvères abbia avuto una comune origine in terra di Francia, i Trovatori fiorirono ed operarono, tra il 1070 e il 1220, nelle province del sud (Provenza, Linguadoca, Limosino, Alvernia), in ambiente della nobiltà feudale e la loro produzione letteraria venne espressa nella lingua d’oc. I Trovieri invece fiorirono ed operarono, tra il 1145 e il 1300, nelle regioni della Francia del nord; la loro poesia venne espressa nella lingua d’oïl – che darà origine al francese moderno – e fu praticata da personaggi che, provenendo in larga parte dal mondo monastico o dalla piccola borghesia (ma ritroviamo tra quelli dell’ultima generazione anche nobili della levatura di Thibaut de Champagne che, alla morte dello zio materno, divenne Re di Navarra), arrivarono a formare affollate corporazioni come quella della città di Arras.

Ciò che invece unisce le due categorie di poeti fu l’abbandono dell’uso della lingua latina in favore dei rispettivi linguaggi del nascente volgare. Così si giustifica anche l’identico significato da attribuire ai loro nomi. Infatti, è ormai comune convincimento che l’origine del verbo trobar (e in senso traslato dell’omologo trouver), vada individuato nel tardo latino tropare o tropum invenire, con il significato di “cercare, trovare versetti, prose ritmiche e sequenze” da interporre nei testi liturgici. Pertanto il trobar, che darà origine ai nomi di questi poeti, consisteva nel “trovare” rime su una melodia preesistente, ovvero nell’affidare ad un testo poetico una nuova intonazione melodica. E’ stato giustamente osservato come i Troubadours non siano stati, in senso assoluto, i primi a comporre in un volgare romanzo, ma deve essere loro riconosciuta senz’altro la primogenitura per aver costituito la prima scuola poetica dell’Europa moderna. La maggior parte di essi erano originari del meridione francese, ma all’interno della loro scuola trovarono posto anche Catalani (Berenguer de Palazol) ed Italiani (Sordello; Lanfranco Cigala), tutti accomunati da una visione poetica che esaltava i temi dominanti del fin’amor e dell’amor cortese e l’adesione ad un ideale aristocratico della poesia, intesa come perfetta corrispondenza tra “forma” ed “immagine”, conquistata – come teorizzava Dante – attraverso un rigoroso impegno (“sine strenuitate ingenii et artis assiduitate scientiarumque habitu”, De vulgari eloquentia, II,IV,10).

Gli elementi che, in estrema sintesi, caratterizzavano la poetica dell’amor cortese possiamo così raggrupparli:

Realizzazione dell’amore al di fuori del matrimonio. L’oggetto d’amore doveva essere sempre una donna sposata e quindi l’esigenza della segretezza in questo rapporto.
Metafora feudale del rapporto amante (vassallo) – amata (signore); atteggiamento trepido e sottomesso del poeta-amante.
Presenza del “cattivo” (il marito della donna amata) e dei cosiddetti lauzengiers, i maldicenti, che si adoperavano per ostacolare l’amore.
Anche le fasi dell’evolversi della passione amorosa erano ordinate seguendo uno schema prestabilito nel quale, a seconda dell’accoglienza via via concessa dalla donna, l’amante assumeva un ben preciso appellativo:

feignedor (il timido amante cela ancora il suo amore);
prejador (l’amante trova il coraggio per implorare amore);
entendedor (la donna consente ad ascoltarlo);
drutz (l’amante è ricambiato).
Verso questa visione si levò la voce discorde del trovatore Marcabru, spirito fortemente bizzarro ed incline ad una feroce fustigazione dei costumi, il quale non esitò a manifestare la sua personale contrarietà ad una siffatta concezione amorosa, bollandola come “volgare adulterio”, giudizio forse troppo eccessivo in quanto sappiamo che il fin’amor trovadorico, quell’amore cioè né naturalistico, né platonico, non celebrava l’adulterio bensì la continenza, pur conservando una colorazione carnale. E forse, proprio per questo motivo, riusciva gradito alla nobiltà in seno alla quale era fiorito, si era affermato e veniva praticato.

Il sentimento amoroso del cavaliere verso la sua dama si configurava concretamente come un “servizio” di natura feudale, un rapporto da “signora” a “vassallo”, che attraverso una serie di livelli, sublimava l’eros lussurioso in visione mistica della donna. Il punto più alto, ovvero l’acme amoroso, era rappresentato generalmente da un casto bacio. Il perfetto amante, nell’intimità come in società, era semplicemente un servitore della sua dama, suo dovere era quello di piacerle, di esserle fedele, di decantarne le virtù. In cambio la dama, sua Signora, doveva rendergli conto del suo comportamento.

Ma è pur vero che, oltre al bacio, il cavaliere poteva aspirare ad avere altre due ricompense: contemplare il corpo nudo della dama e essere sottoposto all’asag, ovvero alla “prova” (in francese essai) in cui tutto era permesso, eccetto l’amplesso vero e proprio.

Un’eco di codesta pratica potremmo scorgerlo in alcuni versi della trovatrice Beatrice, contessa di Dia, allorquando brama di riconquistare i favori di un cavaliere al quale ancora non ha avuto il coraggio di concedergli amore. Il suo desiderio recondito è allora quello di giacere a letto con lui, di abbracciarlo nudo ed offrirgli il suo seno come cuscino. Ciò le procurerà felicità perché è ben consapevole che lui non oserà mai andare oltre ciò che lei (ed aggiungiamo noi, la ritualità dell’amor cortese) gli avrà consentito:

….Vorrei a sera tenere il mio cavaliere
tra le braccia nudo e ch´egli provasse soddisfazione
se solamente gli servissi da cuscino……
….Caro amico, cortese ed affascinante,

quando potrò avervi completamente in mio potere?
Per giacere accanto a voi una sera
e coprirvi di baci pieni di passione.
Sappiate che muoio dal desiderio di coccolarvi al posto del mio sposo,
purché mi promettiate con serietà di assecondare l´amoroso desir.

Il primo trovatore che conosciamo fu Guglielmo IX, duca d’Aquitania, nonno di Eleonora d’Aquitania (madre di re Riccardo Cuor di Leone), del quale ci è giunto un solo frammento provvisto di melodia. Composizioni trovadoriche che, per eleganza poetica e dolcezza d’intonazione si ritengono le più belle, sono “Can vei la lauzeta mover” di Bernart de Ventadorn, “Reis glorios” di Giraut de Borneill, “Kalenda maya” di Raimbaut de Vaqueiras e l’anonima canzone a ballo “A l’entrada del tens clar”.

Contrariamente a quanto si è portati ad immaginare, i Trovatori non furono tutti uomini, ma almeno diciassette di essi furono donne e alcune anche di nobile famiglia come Garsenda, contessa di Provenza (moglie di Alfonso II), e Beatrice, contessa di Dia. Purtroppo la produzione musicale di queste Trobairitz è andata perduta ad eccezione di un unico canto di Beatrice di Dia, intitolato “A chantar m’er de so qu’eu no volria”, che contiene alcuni dei versi più belli della lingua provenzale oltre ad accorati accenti poetici, di forte pathos, che possono sgorgare soltanto dal cuore di una donna ferita nell’amore.

Il movimento trovadorico si esaurì conseguentemente alla Crociata contro gli Albigesi (1209 – 1229), avvenuta a sconvolgere cruentemente le regioni del sud della Francia, e gli ultimi poeti furono Americ de Peguillan che compose “canzos e sirventes, mas molt mal cantava” e Giraut Riquier che morì nel 1294.

La poesia dei Trouvères si presenta con altri contenuti; diversa l’epoca, diverso il contesto sociale nei quali essi si trovarono ad operare.

Il più antico troviere conosciuto è anche il più illustre autore di romanzi in poesia, Chrétien de Troyes, che scrisse appunto “Perceval le Gallois” al quale, secoli dopo, Wagner si ispirò per la sua opera “Parsifal”. Trovieri di rinomata fama furono Gautier de Coinci, Moniot d’Arras, Blondel de Nesle, Thibaut de Champagne, re di Navarra, Adam de la Halle e lo stesso Riccardo Cuor di leone.

Di Adam de la Halle ci è giunto il celebre “Li Geus de Robin et de Marion”, azione scenica – composta probabilmente per la corte di Napoli – con sezioni alternate di canto e danza. Di Riccardo Cuor di Leone conserviamo un componimento “Ja nus hons pris” che rievoca momenti di prigionia dopo la cattura avvenuta mentre era di ritorno dalla terza crociata.

L’orizzonte poetico dei Trouvères se per un verso si presenta di più basso profilo, per altro verso è molto variegato tant’è che possiamo asserire, in quanto a tematiche, che Adam de la Halle fu molto più distante dal collega troviere Colin Muset, di quanto non lo fu Bernart de Ventadorn dal collega trovatore Raimbaut de Vaqueiras.

Basterebbe leggere i versi della chanson “Sire cuens, j’ai vielé” del troviere Colin Muset, personaggio che suscita simpatia per la sua profonda e disarmante umanità. A differenza di tanti colleghi, intenti a struggersi in tematiche amorose più o meno tristi, ben lungi dagli stereotipi dell’amor cortese trovadorico, con buona dose di autoironia fa emergere tutta la sua costante preoccupazione di reperire risorse di sostentamento per la sua famiglia composta da una moglie brontolona, una figlia amorevole, una domestica servizievole:

Signor conte, ho suonato la viella
davanti a voi, nel vostro palazzo,
e non mi avete regalato nulla,
né pagato salario:
è villanìa!
Per la fede che devo a Santa Maria,
così non potrò stare al vostro seguito:
la mia scarsella è poco fornita
e la mia borsa poco piena.

Signor conte, suvvia comandate
quel che volete di me.
Signore, se v´aggrada,
suvvia, donatemi un bel dono,
per cortesia!
Ché ho desiderio, non ne dubitate,
di tornare dai miei:
quando faccio ritorno a borsa vuota
mia moglie non mi sorride!

Anzi mi dice: “Signor Babbeo,
in che paese siete stato,
che non avete guadagnato nulla?
Troppo siete andato a spasso
giù per la città.

Guardate come è floscio il vostro zaino:
è pieno soltanto di vento.
Sia vituperato chi ha voglia
di stare in vostra compagnia!’

Ma quando torno a casa
e mia moglie ha adocchiato
sulle mie spalle gonfia la bisaccia
e ch´io son ben vestito
d´un abito foderato,
sappiate ch´ella subito ha deposto
giù la conocchia senza far commedie,
e mi sorride schiettamente
e mi getta le braccia al collo.

Mia moglie corre a sciogliere
il mio zaino senza indugio;
la mia serva corre ad ammazzare
due capponi per cucinarli
alla salsa d´aglio;
mia figlia mi porta un pettine
con le sue mani, cortesemente.
Allora son padrone a casa mia
più che nessuno potrebbe narrare.

La fine della stagione dei Trovieri fu meno aulica e traumatica di quella dei Trovatori. Nel corso del sec. XIII il movimento venne per così dire assorbito dalle puis, le corporazioni dei cantori borghesi che, con l’artificio del mestiere e, non ultimo, la pratica dei concorsi, finirono per soffocare le composizioni privandole della spontaneità e dell’immediatezza delle origini.
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“La musica”

La struttura musicale delle composizioni dei Trovatori e dei Trovieri è alquanto complessa e ha dato luogo a varie teorie. La notazione che si trova nei codici è quella cosiddetta “quadrata” del canto fermo su rigo; le melodie si sviluppano nell’ambito di un’ottava e risentono dei modi ecclesiastici, in particolare del dorico e del misolidio.

I brani sono esclusivamente monodici (ad eccezione delle composizioni di Adam de la Halle), ma non costituiscono più canto gregoriano, quantunque essi non rappresentino ancora il frutto della nuova arte mensurale discantistica.

Il problema più significativo che tali composizioni pongono per la loro interpretazione è quello del ritmo. La notazione dei manoscritti indica infatti soltanto l’altezza dei suoni, ma non la loro durata.

Taluni, nella trascrizione delle melodie, hanno voluto applicare la teoria dei “modi ritmici” della musica discantistica: 6 modi nei quali è organizzato il ritmo ternario (i primi due corrispondenti al trocheo e al giambo, gli altri di libera invenzione). Ma altri hanno confutato tale teoria dimostrando – a proposito dei Trovatori – come il ritmo musicale obbedisca esclusivamente alle leggi della ritmica sillabica, onde la melodia risponde strettamente alla struttura poetica, collocando su ogni sillaba un neuma distinto.

Ad ogni verso, inoltre, corrisponde una frase melodica compiuta e distinta; ogni sillaba vale una unità di tempo, come la sillaba poetica, e pertanto la composizione segue il principio della mensurazione.

L’intero corpus della poesia trovadorica è racchiuso in una settantina di canzonieri che contengono circa 2.600 componimenti poetici (di oltre 450 poeti), ma le melodie rimaste arrivano soltanto 342 e poiché, di queste, oltre ottanta sono dei duplicati, il numero totale delle musiche di cui oggi possiamo disporre si riduce a circa 260 canti.

Questo corpus musicale è stato édito di recente in due pubblicazioni: I. Fernández de la Cuesta e R. Lafont, Las cançons dels trobadors, Toulouse 1979; H. van der Werf e G. Bond, The Extant Troubadour Melodies, New York 1984.

Le composizioni dei Trovieri, a noi note, ammontano a 2.000 e sono raccolte in circa 40 codici, ma soltanto 14 di essi contengono le melodie. Pertanto le musiche trovieriche eseguibili sono 800, una quantità più che doppia rispetto a quella dei Trovatori.
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“Pronunzia della poesia dei Trovatori”

L’esecuzione del repertorio tovadorico comporta necessariamente l’intervento del canto che, a sua volta, pone problemi di pronunzia.

Nell’intento di contribuire ad agevolare quanti sono interessati all’argomento, riportiamo alcuni “Cenni sulla pronunzia dell’antico occitano” (Materiali didattici del Corso di Filologia occitana dell’Università “Federico II” di Napoli) che desideriamo far precedere da un distinguo, abbastanza illuminante, di Costanzo Di Girolamo:
“La lingua dei trovatori è impropriamente chiamata provenzale. I trovatori parlavano semplicemente di lenga romana, cioè lingua romanza, volgare in opposizione al latino, e solo nel XIII secolo si diffusero, rispettivamente a ovest dei Pirenei e a est delle Alpi, i termini limosino e provenzale, dalle regioni più vicine alla Catalogna e all’Italia, mentre, per le stesse ragioni di contiguità geografica, nel Nord della Francia si usava talvolta pittavino o perfino guascone. Nonostante la sua approssimazione, il termine provenzale ha finito per imporsi negli studi, limitatamente all’epoca medievale (per quella moderna si usa la neoformazione occitano)”
[I Trovatori, pag. 13].
Pronunzia delle vocali:

a come in italiano; seguita da n (anche caduca) ha suono più chiuso.
e come in italiano, può essere aperta o chiusa.
i come in italiano.
o come in italiano, può essere aperta o chiusa; nelle varietà moderne, la o chiusa si è evoluta in u (come in italiano) e alcuni pensano che questo passaggio possa essere avvenuto già in epoca medievale.
u è dubbio se avesse pronunzia velare, come in italiano, o labiopalatale, come in francese.

Le vocali atone e le vocali finali si pronunciano come in italiano e non come in francese.

Pronunzia dei dittonghi: Sono formati da i [j] e u [w] semivocali e contano come una sillaba.
Dittonghi discendenti (accentati sul primo elemento): ai, ei, oi, ui; au, eu, iu, ou (con e e o aperte o chiuse).
Dittonghi ascendenti (accentati sul secondo elemento): ie; ue; uo.
Nei trittonghi l´accento cade sull´elemento centrale.
I dittonghi e i trittonghi si pronunciano esattamente come in italiano, non come in francese.

Pronunzia delle consonanti:

La maggior parte delle consonanti si pronunzia come in italiano, compresa la r, che è alveolare e non uvulare come in francese moderno.
Differiscono dalla pronunzia italiana le seguenti grafie:
c davanti la e e la i, si pronunzia come in italiano sera (s sorda).
ch come in italiano cera, ciao (non come in francese moderno chanson); in posizione finale hanno lo stesso suono ich, g e anche h.
g davanti la e e la i, come in italiano gesto, giro.
gu davanti a qualsiasi vocale, come in italiano gatto, ghiro.
j davanti ad a, o, u, come in italiano gioco (non come in francese jeu).
h è muta.
qu (anche q) davanti a vocale, come in italiano cane, chi.
lh come in italiano figlio; stesso suono hanno le grafie ll, ill, il (dove la i non si legge) e di rado gli.
nh come in italiano ragno; lo stesso suono hanno ny, gn, ngn, ign, ingn (la i non si legge).
ss non è una doppia ma sta per s sorda.
s iniziale e finale, come la s sorda italiano.
z intervocalica, resa a volte anche con z, come in italiano settentrionale rosa (s sonora).
z finale (anche tz e ts) sta per z sorda, come in toscano o in napoletano zucchero; tra due vocali, può essere sia sorda che sonora.
In antico occitano non esistono consonanti doppie; probabilmente, solo rr si distingueva da r scempia.

Spesso può accadere che le grafie dei codici contraddicano le indicazioni schematiche ora menzionate. Si rammenta infatti che la gran parte delle moderne edizioni dei testi in lingua d’oc riproducono, correttamente, la veste grafica del manoscritto preso a base oppure, nel caso particolare, il manoscritto unico, senza tentare nessuna normalizzazione, a differenza di quanto avveniva invece nelle edizioni del passato che erano in grafia normalizzata e come lo sono, per ragioni comprensibili, i dizionari di occitano. Ricorrenti difficoltà riguardano le lettere i / j / y. La grafia di y generalmente sta per i vocale o semivocale, ma anche talvolta per la palatale che troviamo in italiano gesto. Le grafie i e j possono rappresentare tanto la palatale, quanto la vocale o la semivocale.

“Forme poetiche”

La lirica dei Trovatori e dei Trovieri, dai contenuti delle composizioni pervenuteci, comprendeva diverse forme poetiche che sono state classificate da P. Aubry. Riportiamo un elenco esemplificativo:

“Canso’ e “Chanson’: componimento amoroso per eccellenza
“Tenso’ e “Joc partit’ (o “Jeux-partis’): componimento in forma di dialogo
“Alba’ e “Aube’: canto mattutino di commiato degli amanti
“Pastorela’ e “Pastourelle’: canto con protagonisti un cavaliere e una pastorella
“Sirventese’: componimento aulico di contenuto politico o morale
“Planh’ e “Lament’: compianto per la morte di un personaggio
“Balada’ e “Balade’: canzone a ballo

Accanto a tali forme vocali compaiono due forme strumentali riferibili a danze: “Estampida” e “Ductia”.

Fonti bibliografiche:

C. Di Girolamo, I Trovatori. Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino 1989
H. I. Marrou, I Trovatori. Editoriale Jaca Book S.p.A., Milano 1983
G. Cattin, La monodia nel Medioevo (vol. 2 della “Storia della Musica” a cura della Società Italiana di Musicologia). E.D.T., Torino 1991
G. Reese, La musica nel Medioevo. Sansoni Editore, Firenze 1980
M.N. Massaro, La scrittura musicale antica – guida alla trascrizione dal canto gregoriano alla musica strumentale del XVI secolo. Zanibon – BMG Ricordi A.p.A., Milano 1979
D.E.U.M.M. (Dizionario Enciclopedico della Musica e dei Musicisti), UTET Torino 1985