Varie su Bolano

L’ultimo giorno di Firmin

di Enzo Golino
Minima Moralia

Credo che i capolavori del modernismo abbiano ancora molto da dare agli appassionati di letteratura. Tra questi c’è sicuramente Sotto il vulcano di Malcolm Lowry. Per i lettori che non si siano mai addentrati nella «Divina Commedia ubriaca» dello scrittore inglese o per quelli che – pur conoscendola e amandola – continuano a farsene interrogare, proponiamo questo importante e sentito pezzo di Enzo Golino, che di Lowry si occupa sin dai tempi del Mondo di Pannunzio (un suo articolo su Ultramarina uscì nel 1964) e ha continuato a farlo nel corso degli anni. Un ringraziamento a Golino per averci concesso di riprodurre qui il suo lavoro, e una buona lettura agli amici di MinimaetMoralia.
[Nicola Lagioia]

Pochi scrittori come l’inglese Malcom Lowry sanno raccontare il primordiale senso di colpa che accompagna i destini dell’umanità. Più vicino a Conrad e a Melville che a Dostoevskij, l’autore di Sotto il vulcano trasforma l’autobiografico console Geoffey Firmin in un capro espiatorio dell’angoscia metafisica. Lo sfrenato narcisismo di quest’uomo ironico e appassionato, lucido anche nelle nebbie del delirio alcolico, è un retaggio romantico approdato agli esperimenti del romanzo moderno. E il Modernismo letterario di matrice anglosassone, situato fra il 1910 e il 1930 – suo massimo vertice l’Ulisse di Joyce – è la culla in cui matura la narrativa di Lowry, quasi tutta tradotta in italiano fin dal racconto «Elefante e Colosseo» (presentazione di Emilio Tadini, Quaderni milanesi n.1, autunno 1960).

Sotto il vulcano, romanzo a più strati dalla tecnica molto elaborata, gioca sulla dilatazione e la contrazione del tempo la sua principale regola compositiva. Di volta in volta definito inno alla vita, inno alla morte, poema dello sradicamento, creaturale cantico d’amore, viaggio nostalgico alla ricerca del sacro, allegoria moderna della redenzione, si può aggiugngere ciò che ne disse Lowry medesimo: «sinfonia d’opera o film d’avventura, una profezia, un monito politico, un criptogramma, una musica hot, una canzone, una tragedia, una commedia, una farsa e così via…». Esaurito ma non del tutto l’elenco, con la protervia saccente del lettore che interroga e interroga un testo crepitante di sollecitazioni come Sotto il vulcano, vorrei isolarne una frase rivelatrice:

citazione«Era tutta un’illusione, un vorticoso caos cerebrale, da cui alla fine, alla fin fine, emergeva, perfetto e totale, l’ordine…».
I tredici editori che rifiutano il capolavoro di Lowry, spaventati da una presunta illeggibilità, con quali occhi l’hanno letta? Eppure è lì, semplice e chiarificatrice, la chiave strutturale del romanzo. Lowry la offre al lettore quasi invitandolo a non bloccarsi dinanzi alla magmatica superficie della singola pagina e agli intrecci più ambigui della vicenda. Quella frase aiuta a percepire la solida architettura che sostiene il racconto dell’interminabile giornata, il 2 novembre 1938: il console britannico Geoffry Firmin, eccitato e sorpreso dal ritorno della moglie Yvonne che l’aveva abbandonato, ripercorre il suo calvario esistenziale e, dopo una rissa, viene ucciso da un poliziotto messicano, Questa via crucis dell’autodistruzione è una discesa agli inferi lungo i gironi di una Divina Commedia. Lowry ne affida l’introboito al primo capitolo, soprattutto a Jacques Laruelle, un produttore cinematografico amico d’infanzia del console e anche lui insabbiato a Quauhnahuac. Attraverso la ricapitolazione degli eventi, che avviene esattamente un anno dopo, il 2 novembre 1939, Lowry comincia a raccontare la storia del protagonista.

Perenne ubriachezza
Nel’epistolario di Lowry, pubblicato da J. B. Lippincott, New Jork 1965, a cura di Harvey Breit e di Mangerie Bonner, seconda moglie dello scrittore, c’è una lunga lettera all’editore londinese Jonathan Cape. È lo stesso autore di Sotto il vulcano che può aver indotto, fra l’altro, editore, critici e lettori, a giudizi negativi sul romanzo (tra i più severi c’è chi lo ritiene un farraginoso collage di scadenti emozioni).

Denso di riferimenti culturali che includono suggestioni dantesche, il poeta Rupert Brooke, la Cabbala e il jazz, il mito di Faust e il teatro elisabettiano, tanto per menzionare le più evidenti, Sotto il vulcano si propone anche come un’allegoria politica. La guerra di Spagna a cui ha partecipato Hugh, il fratello del console – «Lowry è l’uno e l’altro personaggio, si consuma in loro». (Conrad Knickerbocker, The Paris review n.38, 1966) – assurge a sintomo della follia bellica che di lì a poco scatenerà il mondo. Un pericolo rappresentato da Lowry con l’ossessivo incombere dei vulcani (quello del titolo è il Popacatépetl) intorno alla città teatro delle vicende (Quauhnahuac, cioè Cuernavaca, in Messico, dove Lowry visse qualche anno).

Nella panoplia dei simboli il giardino della casa del console, invaso dalla sterpaglia, rimanderebbe al perduto giardino dell’Eden, mentre la perenne ubriachezza del console sarebbe lo sconvolgimento di un mondo che ha perduto la bussola della ragione. Lowry stesso, nella lettera a Cape, ha messo in evidenza questa e altre equivalenze, metafore e similitudini che una critica eccessivamente corriva, uscito finalmente il libo nel 1947 a New York, avrebbe in seguito dilatatate, accompagnando la crescente fortuna di Sotto il vulcano, di traduzione in traduzione, con glosse ridicole. Un critico francese volle chiosare perfino la passione di Lowry per il golf: «Questo sport assume nella sua opera un notevole rilievo: evoca il buco, dunque la voragine, dunque l’abisso». È vero però che Lowry, più intelligente di certi lettori di professione, sempre nella lettera a Cape, affermava che i simboli del romanzo erano legittimati nel testo non tanto dal fatto di essere simboli, ma elementi stessi della realtà. Lowry insomma vuol dirci che Sotto il vulcano non soffoca la realtà nelle spire di un simbolismo futile ma la esalta, la sublima, la espande, nella sensibilità del lettore.

Questo romanzo, riletto oggi, resiste splendidamente al tempo ed ha quasi assorbito il peso del catastrofismo che l’ha segnato fin dalla prima ispirazione, poiché Lowry, azzannato da autentici fantasmi che gli dilaniarono la vita, coltivò in pubblico e in privato il fascino della sregolatezza. Morì praticamente suicida – 50 compresse di sonnifero – dopo un litigio con la moglie a proposito di una bottiglia di gin, il 27 giugno 1957, a quarantotto anni, in un cottage nel villaggio di Ripe, nel Sussex. Follia, etilismo, suicidio sono dunque passaporti infallibili per la gloria artistica e letteraria? O non sono piuttosto la letteratura e l’arte, cioè l’espressione estetica, l’unico luogo in cui le stimmate dei comportamenti cosiddetti deviati testimoniano senza veli e costrizioni l’altra faccia della normalità? Sotto il vulcano è una delle risposte a questo interrogativo. Lowry sperimenta sulla propria pelle, rigandosi l’anima, l’inevitabilità del confronto tra ragione e follia. E con un’immagine bellissima, pedinando la regolarità allucinatoria che assedia il console nel Regno Doloroso in cui si è costretto a vivere, ferma un attimo di scissione dell’io: «Troppo tardi. Il console aveva messo freno alla lingua. Ma sentiva la sua mente dividersi, alzarsi, come le due metà di un ponte levatoio, per dare passaggio a questi pensieri dannosi».

Parossismo psichico
La sofferenza intellettuale e affettiva che pervade il console e gli altri personaggi del romanzo non è dolorismo d’accatto; Lowry, quella sofferenza, la incide in profondità: sia che riguardi un tremendo episodio in cui è stato coinvolto Geoffrey Firmin quando era imbarcato come capitano sul Samaritan, o la sua gelosia per il tradimento di Yvonne con Laruelle; sia che riguardi l’ingenuo utopismo marxista anni Trenta di Hugh e le sue frustrazioni educative nelle aule di Cambridge o sulla nave dove svolge il suo apprendistato come marinaio.

Non si finirebbe mai, pur tenendo a debita distanza la letteratura dalla vita, di penetrare sempre più nelle fibre di Sotto il vulcano, né di evocare i tratti biografici di Lowry. Quelli più drammatici, come gli internamenti in ospedale, gli elettroshock a ripetizione, il delirium tremens che gl’impediva di scrivere, l’incendio della sua casa e la perdita dei manoscritti; quelli più inaspettati, come l’impresa di sceneggiare Tenera è la notte dell’amatissimo F.S. Fitzgerald per l’industria hollywodiana, un copione di 500 pagine mai filmato; quelli più morbosi, come la pratica dell’onanismo, la forsennata sifilofobia, l’insicurezza sessuale. Trasfigurato in Sotto il vulcano, sia pure con quel genere di operazioni che confondono fastidiosamente vita e letteratura, l’inferno personale di Malcolm Lowry non accenna a esaurire un potenziale di attrazione a cui la scrittura imprime una carica espressiva molto intensa (che la traduzione di Giorigo Monicelli, a parte qualche errore, riverbera benissimo nella nostra lingua). E qui vale la pena annotare che Lowry è forse uno degli ultimi narratori a saper usare parole come cuore, ti amo, gioia mia, senza cadere nel ridicolo; la tenerezza di certi atteggiamenti del console non è una pedestre inclinazione di Lowry al kitsch passionale, ma piuttosto, per il suo eroe, una necessità emotiva devastante quando il parossismo psichico che gli squassa i nervi e gli accende l’immaginazione.

Probabilmente i lettori di Sotto il vulcano avranno in mente un Lowry che in ogni pagina del romanzo cavalca la sua apocalisse quotidiana, la sua caduta priva di resurrezione, la sua vacillante identità. Indubbiamente è così, anche nella scrittura che piega cose, fatti, persone al flusso torrenziale e barocco del linguaggio, qua e là esasperato da ripetizioni, affanni semantici, oscurità. Ma l’efficacia dello stile risalta anche in dettagli che si staccano dalla pagina all’improvviso, proiettandosi al di fuori della materia verbale con plastico slancio. Accade in varie occasioni: Laruelle brucia una lettera di Yvonne dimenticata dal console in un libro, la vita animale nel giardino di casa Firmin, lo sguardo del console mentre scruta l’arredamento della camera di Laruelle, lo stesso console in un’altalena mozzafiato sulla grande ruota volante di una fiera, la frequente apparizione di cani randagi e di scorpioni, un sogno fiammeggiante di Yvonne, la straordinaria scena finale con il corpo del console scagliato in un burrone. Mi accorgo a questo punto che le pulsioni del fan di Lowry e di Sotto il vulcano prevaricano forse sulle ragioni critiche della rilettura. Ma non me ne pento. Come ha scritto Lowry,

citazione«a che serve una volontà se non hai una fede?»
[Enzo Golino ]

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Quel vulcano di Lowry, anticamera dell’inferno
Giorgio Montefoschi
Corriere della sera, 23 ottobre 2007

Mezzo secolo fa, nel giugno del 1957 – era nato in Inghilterra nel 1909 – dopo una breve vita distrutta dall’alcol, trascorsa in Messico, Europa e America, moriva, per un attacco dovuto all’etilismo, lo scrittore inglese Malcolm Lowry. È l’autore di uno dei più importanti romanzi del ’900, Sotto il vulcano, nel quale si narra l’ultima giornata di un ex console britannico, Geoffrey Firmin – pure lui alcolizzato, abbandonato dalla moglie Yvonne – vera e propria controfigura dello scrittore. Al pari di altri romanzi che hanno per confine un arco limitato di tempo, anche Sotto il vulcano ha l’ambizione di proporsi come romanzo iniziatico, e di comprendere ogni aspetto dell’ esistenza umana: felicità e disperazione, oscurità dell’abisso e ordine luminoso delle costellazioni, amore e tradimento, abiezione e salvezza, distacco e ritorno, pietà e indifferenza, odio e perdono.

È un libro arduo: una sconvolgente discesa agli inferi; un cammino nelle tenebre, in fondo al quale non sappiamo se ci sarà redenzione. Ma è anche un libro meraviglioso, solenne, in cui è solenne tutto: sono solenni i due vulcani dal nome impronunciabile che dominano il villaggio messicano; è solenne la natura; sono solenni gli uragani; è solenne il gesto tremante, paragonabile soltanto a quello di alcuni personaggi particolarmente derelitti di Dickens, col quale il console si porta il bicchiere del mescal alle labbra; è solenne il suo procedere incespicando; sono solenni gli animali; le maschere ottuse degli indios nelle taverne; è solenne la distanza dal cielo: tutto è solenne.

È il mattino del Giorno dei Morti del 1939. Reduce da una colossale sbronza, Firmin, col suo abito stropicciato, continua a bere nell’ombra alcolica, «odorosa di cuoio» della fresca cantina che di solito lo accoglie. Poc’anzi, il lettore ha fatto conoscenza di una lettera straziante che lui stesso ha scritto a sua moglie e non ha mai spedito. La lettera si concludeva con una invocazione:

citazione«Per l’amor di Dio, Yvonne, ritorna a me, ascoltami, è un grido di pianto, torna a me Yvonne, non fosse altro che per un giorno soltanto…».
Ora il console alza gli occhi: Yvonne è sulla soglia della cantina; è lì. «Non vuoi bere?» non sapendo cos’altro dire, le chiede. Lei risponde: «Dove sei stato tutto questo tempo? Ti ho scritto e scritto…». I due vanno a casa. Il console trema, traballa. Yvonne si sforza di non piangere. Lungo il percorso, non si sfiorano. Lui – in silenzio – le dice che in questo anno di separazione ha testardamente lottato contro il suo amore, e non c’ è riuscito. Lei – in silenzio, guardando il suo procedere traballante con pietà, rimprovero, e infinito amore – risponde:

citazione«Oh Geoffrey, perché non puoi tornare indietro? Dovrai continuare così, sempre così, a camminare in questa stupida tenebra, anche ora, là dove non posso raggiungerti?».
A un tratto, in una vetrina, vedono la fotografia di una roccia millenaria della Sierra Madre spaccata a metà. In mezzo, c’ è l’abisso. Loro – pensa Yvonne, desiderando spasmodicamente di ricongiungere le due rocce – sono sugli orli di questo abisso. Sono arrivati a casa, intanto. Il giardino, che una volta era rigoglioso come il Giardino dell’ Eden, è nel caos. «Dove sono le mie camelie?» si lamenta Yvonne. Poi, sulla veranda – perlomeno così sembra, scrive Lowry – marito e moglie si abbracciano appassionatamente. Scrive ancora una cosa stupenda, Lowry, a segnalare il momento divino – wagneriano, possiamo dirlo – di questo abbraccio:

citazione «Chissà dove, dall’ alto del cielo, un cigno, trafitto, piombò sulla terra».
Quindi, marito e moglie vanno in camera da letto. Lei è sotto le lenzuola, ha fatto il bagno. Lui siede sul bordo del letto. Prova a fare l’amore. È inutile. Vede la bottiglia del whisky. Si aggrappa alla bottiglia. Fugge, mentre le nuvole, sopra i vulcani immobili, gli dicono: «Bevi, bevi», e nel cielo ruotano gli avvoltoi che si insozzano della carne umana. «Bevi» ripetono, mentre l’ombra d’una stanchezza immensa, benefica, lo fa crollare nel sonno. Quando si ridesterà, con la letizia colpevole degli ubriachi negli occhi, e il pennello della barba in mano, il sole è al culmine. Sono entrati in scena i due uomini con i quali Yvonne, la donna «sempre in procinto di essere bellissima», lo ha tradito: un cineasta fallito, Jacques Laruelle; suo fratello, Hugh Firmin. Si forma una specie di compagnia di giro, con i personaggi che entrano ed escono, in attesa della liberazione finale da un incubo.

L’orrore alcolico, incarnato in insetti orribili, nella luce schiantata del sole così lontana dal fardello cupo della coscienza, dà tregua al Console, ogni tanto. Ma, in queste pause, è il peso del passato che si insinua: la gelosia non sopita, l’incapacità del perdono. Yvonne sembra allegra, cammina con grazia: nessuno potrebbe immaginare il suo dolore. In silenzio, supplica:

citazione«Geoffrey, caro, non tremare, di che cosa hai paura?».
Lei pure, adesso lo sappiamo, ha inviato delle lettere. In una è scritto:

citazione«La sera scivolo sotto le coltri e tu sei là che mi aspetti. Che altro c’ è nella vita oltre alla persona che si adora? Tu credi di essere perduto, ma non è così, perché gli spiriti della luce ti aiuteranno e ti porteranno verso l’alto, a dispetto di te stesso».
Però, il console queste lettere non le ha lette. Le leggerà in ritardo. Perché nel cuore ha il buio, vuole tornare in inferno, e l’alcol lo perseguita,

citazione«come cupi immensi cavalloni sospinti ad avventarsi definitivamente sopra un piroscafo che affonda».
È cominciato a piovere, nel frattempo. Il console si è perduto. È entrato in una chiesa, si è inginocchiato davanti alla Madonna dei diseredati che lo guardava a capo chino, e le ha chiesto più dolore, più purezza, senza ricevere conforto. Allora se n’è tornato alla taverna. Yvonne e Hugh lo cercano. Nella taverna ci sono dei mascalzoni. Uno di loro spara. Il console è morto. Fuori, invece, è scoppiato l’uragano. Una specie di Diluvio Universale: sradica gli alberi, copre i vulcani, copre tutto. Infatti, chi può guardare, adesso, le costellazioni eterne che

citazione«contemplano i diseredati e gli smarriti cercando di ritrovare la fede, navigando sopra le nubi o perduti in alto mare o ritti tra gli spruzzi sul castello di prua?».
Chi, adesso, potrà leggere nel cielo, per chiedersi, ancora una volta, se in tutto questo c’è uno scopo, se esiste una forza che spinge quella «sublime macchina celeste?»

[Giorgio Montefoschi ]

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L’oro di Lowry
di ERALDO AFFINATI
Seduti sul molo, bisognerebbe osservare i gabbiani mentre volano in tondo nell’aria marcia del tramonto. Spazzini del cielo. Cacciatori di stelle. Mi vennero in mente queste metafore, e tante altre ancora trovate come pepite d’oro fra le pagine di Malcolm Lowry, quando, qualche anno fa, giunsi sulla spiaggia di Dollarton dove il grande scrittore visse insieme a Margerie forse la sua stagione più bella. Fu lì che, staccandosi dal mondo con un taglio netto, simile a un’amputazione spirituale, scoprì qualcosa di se stesso capace di farlo sentire come un dio.

“Per quattordici anni – leggo in Salmi e canti (Feltrinelli, collana Le Comete, traduzione di Bruno Amato, 25 euro), una raccolta di scritti specie giovanili, ma soprattutto una straordinaria galleria di testimonianze umane – i due sposi abitarono in un capanno occupato abusivamente dalle parti di Vancouver, senza isolamento alle pareti ne una stufa per riscaldarsi”. Firmato Clarissa Lorenz, moglie di Conrad Aiken, il cui Blu Voyage tanto colpì la fantasia del giovane Malcolm da spingerlo a mettersi sulle tracce dell’ autore diventandone amico.

Lowry morì alcolizzato, quarantottenne, a Ripe (Sussex) nel 1957, come il protagonista di Caustico lunare, suo indimenticabile cartone romanzesco, ispirato a un ricovero volontario nel reparto psichiatrico dell’ospedale Bellevue di NewYork.

citazione“Di buon mattino un uomo lascia una taverna del porto, con l’odore del mare nelle narici, e una bottiglia di whisky in saccoccia, scivolando sui ciottoli con la leggerezza di una nave che lascia il porto”.
Inizia così, l’irresistibile racconto rimasto incompiuto. Dodici anni prima della morte di Lowry, Billy Wilder, in quello stupendo film che è I giorni perduti, parve preconizzarne la fine raccontando le vicende di uno scrittore in crisi il quale, inutilmente consolato da una donna, non trova di meglio che attaccarsi al bicchiere.

Fra i drammi etilici del nostro tempo (Dylan Thomas, 1953, New York; Brendan Behan, 1964, Dublino; Jack Kerouac, 1969, St. Petesburg, Florida; Luciano Bianciardi, 1971, Milano), quello di Lowry, in particolare, sembra richiamare la dissoluzione di Edgar Allan Poe che nel 1849 fu raccolto privo di sensi in una locanda di Baltimora e spirò al Washington Hospital pochi giorni dopo. Come l’autore dello Scarabeo d’oro, anche Malcolm Lowry parte da una base lirica. Non potrebbe neppure iniziare a scrivere se non fosse spinto da un’esplosiva carica d’energia vitale – un surplus di cui certi individui sono dotati e che il mondo antico probabilmente sapeva utilizzare meglio di quello moderno.

citazione “Ventinove nuvole. Un uomo ventinovenne era già sui trent’anni. E lui aveva ventinove anni”
come dimenticare lo strepitoso grido cripto-dantesco di Hugh, nello sfolgorante capitolo sei di Sotto il vulcano (1947), una delle opere letterarie che ci consentono di interpretare il Ventesimo secolo con spirito meno triste del dovuto? “Twenty-nine clouds. At twenty-nine a man was in his thirtieth year. And he was twenty-nine”. Questa è una voce originale. Unica come può esserlo il verso della cicala. Il nitrito del cavallo. Il ruggito del leone. Ci senti dentro l’anima dell’uomo cui appartiene. Con quel romanzo, scampato alle fiamme di un incendio grazie al fortunoso recupero di chi lo compose, sembra che la macchina narrativa di James Joyce, talmente sofisticata e complessa da rischiare l’immobilità, riprenda a marciare. Il monologo di Molly segna il capolinea. Quello di Hugh la stazione di partenza.

Ricordo che i bambini cinesi giocavano vicino alla lapide commemorativa di Dollarton. Ero arrivato laggiù con un Sea-bus, catamarano d’altura che dal centro di Vancouver mi condusse a Nord, dall’altra parte della terraferma. Poi avevo preso due autobus verso Deep Cove prima di scendere sulla strada seguendo l’istinto. Mi ero buttato giù verso il mare illudendomi di ripercorrere lo stesso sentiero utilizzato da Malcolm per andare a prendere l’acqua. Ce lo dice lui stesso nell’ultimo racconto di Ascoltaci signore (uscito postumo nel 1961). Secondo la dottoressa Nyland, alias suor Agnes Cecilia, questo lungo diario “è la cosa più bella che Lowry abbia scritto”.

Ho riletto il testo e devo ammettere che, a mio parere, si tratta di un’affermazione tanto perentoria quanto giustificata. L’uomo dei boschi batte dieci a zero Katherine Mansfield giocando sul suo stesso terreno: il mare e gli uccelli, la sabbia e gli orizzonti perduti. In altre parole: tutto ciò che restava del romanticismo sul quale i padri inglesi, con le loro visioni di laghi e foreste, edificarono il sistema di valori da consegnare ai figli. Malcolm Lowry non ha più la fiducia rappresentativa di Rudyard Kipling: respinge la buona educazione britannica. Descrivere le piante non gli basta più. Questo scrittore con gli alberi ci parla. Il viaggio intorno al mondo che intraprende a vent’anni si rivela subito, come voleva essere, un passo falso nelle meraviglie esotiche. Ultramarina (1933), il libro che ne deriva, la sua tesi di laurea a Cambridge, commemora un’epoca ormai trascorsa per sempre. Quella dei coraggiosi capitani e degli intrepidi nostromi. Celebra la fine di ogni possibile linea d’ombra. È l’epitaffio di Joseph Conrad. “Interiormente – sostiene Gerald Noxon – Malcolm era un uomo in fiamme”. Statura bassa, spalle larghe, forza eccezionale. Al tempo in cui divideva con Margerie il capanno sulla spiaggia, ogni mattina, cascasse il mondo, si tuffava nell’ oceano Pacifico a nuotare. Volendo, avrebbe potuto saltare in acqua direttamente dal pontile: pare lo facesse, quando veniva l’alta marea. I suoi occhi erano di un azzurro estremo, scandinavo. La madre infatti era figlia di norvegesi. Il padre un ricco commerciante che, con ogni probabilità, lo sostenne finanziariamente per tutta la vita. Lo scrittore ne aveva bisogno. Così come non avrebbe mai saputo rinunciare alla seconda moglie (la prima si chiamava Jan Gabrial: conosciuta in Spagna, non resse molto). Da solo non riusciva ad allacciarsi neppure le scarpe: lo testimoniò con affetto il dottor McNeill che lo ebbe in cura.

Oggi il capanno alla confluenza dell’Indian Arm non esiste più. Le famiglie, durante i fine settimana, portano i barbecue sulla spiaggia. Ma per fortuna le autorità non hanno consentito di costruire molto sulla costa. L’oceano entra dentro l’insenatura come un diavolo scatenato e si rabbonisce subito. Lowry si era ritirato su questo braccio di mare: a chi lo vide in quei giorni lontani fece l’effetto di un monaco alcolizzato. David Markson ne rammenta l’eleganza vagabonda: “Al posto della cintura si legava alla vita un pezzo di corda o una cravatta smessa”. Chi avrebbe potuto dire che Vancouver sarebbe diventata così importante per lui? La città degli Indiani, sentinella della Prateria, mitico capolinea della Canadian Pacifico In Buio come la tomba dove giace il mio amico, un altro manoscritto postumo dato alle stampe nel 1968, Malcolm recupera alcuni suoi vecchi versi nei quali ricorda il grigio Vancouver Bus Terminal, pieno di nomi da sogno: “Portland, New Orleans, Spokane, Chicago – e Los Angeles! Città degli angeli e della mia fortuna”.

Da Vancouver Malcolm Lowry conquistò il suo Messico.

[Eraldo Affinati ]

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Lowry alla deriva sotto il vulcano
di Franco Cordelli
Corriere della sera, 6 dicembre 1997

I cinquant’anni di un capolavoro Lowry alla deriva sotto il vulcano

Lolita di Vladimir Nabokov e Sotto il vulcano di Malcolm Lowry (pubblicato nel 1947) sono, a mio parere, i due esiti piu’ alti della narrativa del dopoguerra. Ma Lolita, per quanto oscuro o torbido, e’ un testo che sprizza vitalità. Non solo il lolitismo, non solo la “scoperta dell’ America”, il vecchio mondo che subisce il trauma del nuovo mondo, il mondo che tutto divora e consuma, le passioni e il tempo, ma anche quella prosa sontuosa, a grandi arcate, limpida, quella prosa a suo modo classica. Difficile non essere conquistati dallo stile dello scrittore russo che ha imparato ad usare l’inglese come nessun inglese, e dai personaggi del suo romanzo, l’ ammirevole, ostinato, pazzo Humbert Humbert e la divina Lolita.

Al contrario, la prosa di Sotto il vulcano, l’ architettura del romanzo (con quel primo, spaesante capitolo, la cui vicenda si svolge nel giorno dei morti del 1939 e tutto il resto, gli altri undici, il 2 novembre di un anno prima) e la stessa struttura, calcolata al millimetro, per come infallibile la puo’ calcolare l’ inconscio travestito da consapevolezza (secondo quanto attesta la famosa lettera che l’autore spedì all’editore inglese Jonathan Cape, che proponeva tagli su tagli), tutto questo si pone come primo, decisivo ostacolo. La lezione di Joyce e’ alle spalle. In più, Lowry scrive da poeta: per lui tutto e’ metafora, o addirittura simbolo. Non c’è atomo di realtà che non sia ricettacolo di significato e quindi suscettibile d’interpretazione.

Il suo Eden, o il suo Inferno, sono gli anni Trenta: il decennio di tutte le speranze, di tutti i tradimenti. Chi, negli anni Trenta, non ha sperato in un altro mondo? Ma l’ altro mondo di Lowry, che era nato in Inghilterra nel 1909, e che da ragazzo s’era imbarcato per la Cina allo scopo di imitare i suoi maestri, Melville, Conrad e O’ Neill, e che s’era poi arenato a Cuernavaca, in Messico, e rifugiato a Vancouver, in Canada, l’altro mondo di Lowry fu la deriva del mondo, l’esserne espulso e l’intimo desiderio di non farvi piu’ ritorno: nel nuovo mondo e nel vecchio, per Lowry era lo stesso. Meglio, pensava, non essere nati. L’ alcol, come attesta il suo piu’ alto vessillo, il console Geofrey Firmin, è l’unico rifugio possibile. Da qualche parte un tradimento e’ stato consumato. Qualche cosa, forse la capacita’ di amare, si e’ perduta per sempre. Al Console, desolato in quel suo “Messico maledetto”, non sara’ offerta ne’ la possibilita’ di avere vicina la moglie ne’ di essere Hugh, il suo piu’ dolce fratello (e anche Hugh ha abbandonato la Spagna in fiamme e si e’ spinto in Messico).

In Sotto il vulcano, dunque, non c’è solo una tecnica che tiene allo spasimo, sempre sulle punte, l’attenzione del lettore. C’è anche un cuore di tenebra, la figura di una autodistruzione, il pulsare di una vocazione tragica: lo schermo, offuscato, di un fallimento cui sembra condannato non solo il Console, di cui ci viene raccontata l’ultima giornata, ma l’uomo in quanto interprete del suo mondo e in quanto suo possibile eroe. Di qui, la difficolta’ di identificarsi. Personalmente, solo attraverso la lettera a Jonathan Cape, ho capito che nell’XI capitolo muore la moglie del Console, l’amata – disamata Yvonne. Quando lo capii, ne rimasi deluso. Non era più giusto che a morire fosse solo Geoffrey Firmin, nell’ultima pagina, nelle ultime righe? Dal punto di vista della realtà, o della verosimiglianza, la morte di Yvonne e’ un eccesso, e’ quella abbondanza di significato di cui dicevo.

Ma per Lowry la realtà contava quanto la non – realtà: nel suo caso l’allegoria. La sua allegoria era quella dell’Amore, era un’allegoria mistica, un’allegoria celeste. Essa voleva l’unità, voleva che marito e moglie, disperatamente separati, fossero uniti se non altro nella morte, come uniti sono, sullo sfondo, i due vulcani, il maschio Popocateplet e la femmina Ixtacihuatl. L’allegoria di Lowry esigeva che il dato della realtà, nonostante il fallimento, l’amarezza, l’alcol, fosse integrato o superato da un altro elemento, magico e segreto: che e’ il motore del testo, la sua potenza. E’ quanto, credo, resta nascosto ad ogni lettore che “sotto il vulcano” non si ostini a dimorare e non vi torni ripetutamente, come un amante rifiutato, che sempre spera.*

[Franco Cordelli ]

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Malcom lowry, idiota divino
di Laura Lilli
La repubblica, 26 settembre 1989

MALCOLM Lowry era uno scrittore uno dei Grandi Inglesi di questo secolo, ma non poteva tenere in mano una penna o una matita. Se lo faceva, la testa gli si svuotava completamente. Non era in grado nemmeno di fare la sua firma per una dedica, o dietro un assegno. Così, dettava alla moglie Margerie, stando in piedi e appoggiandosi con il dorso delle mani sul piano della scrivania. In questa posizione era teso a tal punto che ancora giovane le gambe gli si riempirono di vene varicose, tanto da doversi operare; e sulle nocche e sulle prime articolazioni delle dita gli si formarono dei calli. Come sulle zampe di un antropoide!, esclamò esterrefatto C.G. McNeill, il medico al quale, in Canada, Lowry si rivolse perché le varici non gli consentivano più di stare in piedi, e dunque di scrivere.

Troviamo questa storia che è molto più di un aneddoto in un ricordo dello stesso dottor McNeill, contenuto nel numero di Nuovi Argomenti che va in libreria in questi giorni. E’ un numero monografico, intitolato Omaggio a Malcolm Lowry. Contiene preziosi inediti dell’autore insieme a note critiche e a testimonianze su di lui. Gli inediti consistono in un racconto, Ghostkeeper, in sette poesie appositamente tradotte da Edoardo Albinati, e in quattro lettere di cui una, lunghissima, all’editore Jonathan Cape, che Lowry scrisse per difendere con successo Sotto il vulcano dai tagli, e che è senz’altro il saggio più appassionante e illuminante mai apparso su questa prima cantica di una Divina Commedia ubriaca, come lo stesso Lowry definiva il suo capolavoro.

Le testimonianze (oltre quella citata del medico) sono di scrittori profondamente legati a lui: David Markson, suo figlio putativo, e Conrad Aiken, che egli elesse a suo maestro di poesia e che, in un certo periodo, gli fece giuridicamente da padre, agendo in loco parentis. I saggi critici sono di Guido Almansi, Franco Cordelli, Toni Cartano. Se non si fosse suicidato il 26 giugno 1957 in un cottage del Sussex con un po’ di gin e venti compresse di amital, il 28 luglio di quest’anno Malcolm Lowry avrebbe compiuto ottant’anni.

E forse le pagine culturali e i supplementi letterari dei quotidiani sarebbero stati pieni di sue fotografie, citazioni, interviste. Ma forse no. Scrittore maledetto come Dylan Thomas, bruciato dall’alcool, di lettura non facilissima, totalmente incompatibile col mondo in cui viviamo (e probabilmente con qualunque altro mondo), forse Malcolm Lowry sarebbe riuscito perfino a scampare alle nostre implacabili celebrazioni di ottuagenari.

La storia però non si fa con i se, ed è inutile almanaccare. Come è scritto nella nota introduttiva a questo numero di Nuovi Argomenti, il buio e la nebbia hanno accompagnato il suo nome tanto in vita quanto nel trentennio successivo alla morte, e la rivista ha inteso accendere un faro in questa bruma. E ci è riuscita. Chi ancora non conoscesse la morte per alcool dell’ex console James Firmin di Sotto il vulcano (pubblicato in Inghilterra nel ’47 e tradotto in italiano nel ’61), certamente sarebbe invogliato a leggerne da queste 168 pagine. Chi invece conoscesse il libro, ma ritenesse l’autore un one-book writer, potrebbe scoprire nuove dimensioni della sua poetica. L’omaggio è anche per la moglie Margerie, morta l’anno scorso. Fuori da ogni retorica, Margerie fu davvero in simbiosi con lo scrittore: e questi inediti sono prima di tutto merito di lei, che li ha conservati e assemblati.

Ci imbattiamo in questa simbiosi ad ogni passo dello splendido racconto Ghostkeeper. Si tratta di una storia non finita che (quando evidentemente ancora poteva tenere una penna in mano) Lowry buttava giù di notte e Margerie batteva a macchina di giorno. Nel testo, lui si rivolge spesso alla moglie chiedendole aiuto per immaginare e descrivere stati d’animo e scene difficili. Con una scrittura cangiante come una pietra in cui brillino tanti minerali, le invocazioni-raccomandazioni a Margerie si mescolano, nel racconto, a brani di giornale, a cose viste, a fantasticherie sulle cose viste, a elenchi di nuove continue possibilità di sviluppi e significati della trama. Il fascino di questa storia incompiuta è proprio nel suo crescendo di non finitezza, se così si può dire. La creatività viene a nudo: si vedono gli ingranaggi del meccanismo della scrittura lowryana.

All’inizio, tutto sembra comprensibile e perfino cristallino, come il paesaggio terso in parte estivo e in parte invernale, ma sempre trasparente e splendente in cui il protagonista passeggia con la moglie. Gli ingranaggi girano lentamente, come d’altronde in Sotto il vulcano (nella lettera all’ editore Jonathan Cape, che gli rimprovera, per l’appunto, questa lentezza, Lowry risponde che non vuole fare paragoni infantili… ma anche L’idiota e Moby Dick hanno un inizio lento). Poi, i due protagonisti trovano un orologio, e i significati di ogni cosa si complicano al punto da non poter essere non solo scritti, ma nemmeno capiti.

C’è troppa verità per afferrarla in una volta… Se vuoi arrivare vicino alla realtà avrai venti diversi intrecci e una storia che nessuno vorrà. Il racconto segue le vicende dei suoi protagonisti ma anche quelle sue proprie, interne cioè alla scrittura: le prime rimandano alle seconde, e viceversa. Leggiamo ancora in questo finto work in progress: la storia si prepara a finire in un modo nemmeno remotamente suggerito dall’inizio… Al momento in cui un artista comincia a plasmare il suo materiale specialmente se quel materiale è la sua vita qualche leva magica viene spinta e mette in moto una sorta di macchinario celestiale che produce eventi o coincidenze che gli mostrano che questo suo plasmare è assurdo, che niente è statico o può essere immobilizzato, che tutto si evolve e si trasforma in altri significati o in cancellazioni di significati, ben oltre la sua comprensione.

Pur essendo diversissimi, i testi del fascicolo di Nuovi Argomenti provocano in chi li legge almeno due sensazioni. La prima è che Malcolm Lowry fosse perfettamente consapevole della propria grandezza. Scrive ad esempio a Jonathan Cape:
citazioneIl libro è molto migliore, più ricco e più profondo, ed è costruito con molta più attenzione di quanto non creda il suo lettore (dieci anni di scrittura e tre stesure, ndr)… ed è stato pensato, contropensato e costruito in modo da poter essere letto un numero infinito di volte senza esaurire mai tutti i suoi significati, la sua drammaticità e la sua poesia.
La seconda sensazione è che spesso e certamente nel caso di Malcolm Lowry i confini tra poesia e prosa sono molto labili. E questo non solo grazie alle sette belle poesie inedite, e nemmeno perché, come dice la nota introduttiva, il progetto letterario, nonostante l’ ossessività delle prose, non ha mai trascurato la forma poetica. Ma soprattutto perché lo stesso Lowry si definisce un poeta. Scrive, ancora, a Jonathan Cape:

citazione Il difetto principale del Vulcano, da cui nascono anche gli altri, deriva da qualcosa di irrimediabile. E cioè che il bagaglio intellettuale dell’autore è più soggettivo che oggettivo e quindi, in sintesi, più adatto a un poeta che a un romanziere… ho cercato di nascondere le deformità della mia mente nel Vulcano e mi sono fatto coraggio pensando che forse non è così grave che si vedano, dato che l’ idea originaria era essenzialmente poetica!.
Che genere di persona è questo scrittore-poeta? Egli stesso semplicemente non sa chi è, risponde di nuovo Malcolm Lowry, in un’ altra lettera. E’ una sorta di uomo del sottosuolo… disinteressato alla letteratura, incolto, incredibilmente indisciplinato, sotto molti aspetti ignorante, senza fiducia in se stesso, e privo di quasi tutte le qualità che normalmente uno associa all’ idea di un romanziere o scrittore. O anche, potremmo aggiungere, di un uomo comune. Malcolm Lowry sembrava non avere alcuna padronanza, e nemmeno consapevolezza, del proprio corpo. Nello studio del medico, si sarebbe infilato entrambe le scarpe senza i calzini (prima una, poi l’ altra) se Margerie, con pazienza, ogni volta non lo avesse corretto. Adorava il mare, e dalla sua casa in Canada poteva addirittura tuffarcisi dalla finestra. In acqua si metteva a pancia in su a fare il morto, e in questa posizione poteva anche addormentarsi. Una volta ci rimase tante ore che si ustionò gravemente. In altre parole, il poeta questo particolare poeta, almeno è una persona incapace di qualunque cosa tranne che di scrivere. E’ un cervello racchiuso in un corpo che fa semplicemente da contenitore, ed è attraversato da continue scariche di intuizioni, folgorazioni, simboli e significati a catena, sempre più complessi e irruenti. Il cervello stesso ne è annichilito, e l’ alcool sembra l’ unico aiuto per farvi fronte. Forse, Malcolm Lowry è una delle ultime personificazioni del divino idiota. Forse, ancora, nel suo caso potremmo deporre i nostri pudori e citare il poeta baudelairiano simile all’ albatros, che in cielo sfida l’ arciere e la tempesta, ma, esiliato al suolo, ses ailes de géant l’ empechent de marcher.

[Laura Lilli]