Varie su Bolano

Massimiliano Di Mino e Roberto Bolano

Somiglia a una bibbia. Ho qui tra le mani la nuova edizione Adelphi, che racchiude in un unico tomo 2666 , e mi viene in mente una bibbia.
Certamente, riacquistare un romanzo che già si possiede equivale ad un atto di fede, o ad un atto feticista di cieco piacere. E del sofferente piacere di parlare di Roberto Bolaño ho avuto già occasione di scrivere nelle pagine del Paradiso . È un compito enorme, se non impossibile, accingersi a scrivere una recensione di 2666, e non solo per la difficoltà di tracciarne un esaustivo riassunto, ma soprattutto per la consapevolezza che per lungo tempo non riuscirò a trovare qualcosa di più bello, emozionante e commovente. E potrei continuare, anzi è proprio questo il rischio: far sfilare aggettivi a piacimento nella vana speranza di rendere la grandezza di questo autore; autore totale come la sua opera.

Certo i miei occhi sono inebriati, innamorati, ma riponendo il corposo volume nello scaffale della libreria (sempre che non amiate gli altarini), ci si commuove di sé, spiazzati come davanti alla morte. Morte che tristemente coincide con quella di Roberto Bolaño, nel 2003, poco dopo aver concluso il romanzo, aspettando un trapianto di fegato.

Romanzo totale perché, se si può accennare alla struttura, non è utile incastonare 2666 in alcun genere; almeno non in uno solo.
Romanzo d’avventura, verrebbe da dire per semplificare – cosa certo non amata dall’autore- ma come non trovare nelle 1000 pagine di questa sconfinata avventura, senza cedere un passo di fronte al lirismo poetico che ne accompagna ogni singolo paragrafo, il romanzo di formazione, d’amore, psicologico, il noir, l’hard boiled fino alla più fredda cronaca.

Del resto, ci sarebbe il materiale non solamente per 1000 pagine ma per 10.000, se non si affrontasse il rischio d’incorrere in accuse di alto tradimento. Tante, tantissime storie, alcune appena pennellate, tracciate sembra, per puro e personalissimo piacere narrativo; altre che meritano decine di pagine.
In più interventi Bolaño ha detto di pensare alla letteratura come una cosa autonoma, capace di nascere e proseguire il suo cammino in maniera autosufficiente; forse per questo l’autore pur capace di forgiarne di preziosissime, non ha mai intenzionalmente fornito ai suoi scritti delle sicure stampelle come possono essere i generi: se non è dunque utile analizzarli, può esserlo almeno sottolineare il tema ricorrente dei romanzi dello scrittore cileno.

In 2666 come ne I Detective Selvaggi, il motore, il cuore narrativo è la ricerca (sempre uno scrittore scomparso), tema che nell’autore sembra assurgere a un compito divino, un esercizio salvifico del proprio vivere. Un’indagine costruita attraverso un’infinità di voci che amano perdersi per poi ritrovarsi quando ormai non te lo aspetti, alcune apparentemente capziose ma egualmente capaci di tracciare personaggi grandi e minori, tutti utili alla causa. Questo è il cosmo di Roberto Bolaño. Un cosmo che forse per alcuni è più bello che utile. 2666 è un dedalo senza confini di storie, delle sue crepe, dei suoi buchi neri, che insieme creano la Storia.

Rodrigo Fresán ( Esperanto; I giardini di Kensington), scrittore amico dell’autore, che si era proposto di scrivere “una sorta di autobiografia di un lettore la cui vita avesse la stessa durata del libro e, per fortuna, era un libro lungo” , ha presto abbandonato l’impresa sottolineando in un articolo «Niente da annotare. Niente da dire. Difficile scrivere qualcosa su tutto».

Il tutto prende forma dall’Europa a Santa Teresa , città di confine nel deserto di Sonora. Il libro comincia, infatti, con l’amicizia di quattro critici di diverse nazionalità (francese, inglese, italiana, spagnola), legati da una stessa passione-ossessione per il misterioso scrittore Benno von Arcimboldi. Tre di loro seguiranno le tracce dello scrittore fino in Messico, a far loro da guida (siamo già nella seconda parte) il professore cileno Amalfitano, che dopo essere sfuggito alla dittatura di Pinochet e aver girato il mondo, si stabilizza a Santa Teresa, nome che cela la vera Ciudad Juàrez , con sua figlia Rosa. Insieme alla ragazza andremo alla scoperta di Oscar Fate, antieroe per eccellenza e redattore sportivo di colore chiamato in Messico per seguire un incontro di boxe (terza parte). Poi le ultime due parti: quella dei delitti, delle efferatezze raccontate con diagnostica freddezza e al contempo con quel lirismo che l’accomuna in parte alla poetica di Edgar Lee Master (infatti, dietro a un catalogo di esemplari umani e vite diverse, si cela un’ unica matrice che ci racconta vite disperate e terribilmente concluse) che è forse la parte più lenta, una pausa nera di terrore che Bolaño concede e si concede prima dell’epilogo: La parte di Arcimboldi. La ricerca sembra conclusa, il lettore verrà a sapere qualcosa in più della misteriosa vita dello scrittore tedesco, della sua famiglia, dell’amore per la sorellina e della metamorfosi che l’ha trascinato fino al deserto di Sonora. Eppure non ci basta, vorremmo sapere di più, vorremmo sapere tutto, cosa vedrà il protagonista nel suo viaggio in Messico; e se Roberto Bolaño è Benno Von Arcimboldi e come il suo personaggio ha vissuto la scrittura come un gioco e anche come un affare, un gioco nella misura in cui provava piacere scrivendo, un piacere simile a quello del detective prima di scoprire l’assassino; ancora vorremmo sapere se l’autore non somiglia invece più ad Amalfitano oppure se solamente nel detective selvaggio Arturo Belano possiamo ritrovarlo. Vorremmo sapere Roberto Bolaño ancora vivo, magari perso nei suoi deserti, vorremmo ci regalasse ancora tante pagine e magari, vedere edite anche in Italia le sue poesie.